Storia di una valle e dintorni – 12a parte

La seconda fase del rastrellamento invernale.

Con i combattimenti del 29 novembre (1944) si era chiusa in val Trebbia la prima fase del rastrellamento invernale.
Ad essa seguiva subito quella della caccia all’uomo, metodica, accurata e sistematica, condotta cascina per cascina, rifugio per rifugio, con lo scopo specifico di catturare gli sbandati e d’impedirne la riorganizzazione e la ripresa. Si aprivano in tal modo per i partigiani e per la generosa popolazione delle montagne le pagine più tristi di questa drammatica storia. Mentre i patrioti ormai stremati dai combattimenti, laceri ed affamati, braccati da tutte le parti, a piccoli gruppi o isolati si erano dispersi, la soldataglia nazi-mongola si era data ad ogni sorta di violenze e di angherie nei confronti della popolazione. Furono incendiate case e cascine, razziato il bestiame dalle stalle, svaligiate le abitazioni, percossi i vecchi e i fanciulli, violentate le donne.
A Costiere una giovane maestra che aveva saputo resistere malgrado le minacce di morte, veniva costretta a sedersi sulla piastra di una stufa arroventata e riportava gravissime ustioni. Soltanto il giorno dopo Barba 1° riusciva a raggiungere la poveretta, per soccorrerla e farla trasportare sino alla sua casa, in pianura, sotto la scorta di una nostra pattuglia di alpini. Il nemico non aveva però saputo sfruttare il successo conseguito nella battaglia di Coli-Peli. Dopo aver vanamente inseguito i partigiani oltre il monte Capra, sino alle varie frazioni di Pradovera, non sboccò infatti nella val Nure per quanto ne avesse ormai via libera; il giorno 1° dicembre era già di ritorno a Bobbio, dove trascinava come trofei di guerra lunghe file di animali predati. Parimenti nel settore assegnato alla VII brigata si era limitato a giungere sino alla linea di Costiere e Metteglia, ma non aveva insistito per proseguire oltre, verso Ozzola, e calare a Marsaglia, sulla statale N. 45. Evidentemente credeva di aver sgominato completamente i partigiani e ripulita ormai tutta la zona.
Dispersa nel modo che si è detto la divisione «G. L.» ed occupata tutta la val Trebbia da Bobbio a Rivergaro, l’avversario stabilì dei forti presidi nei maggiori centri abitati del fondovalle. Questi dapprima furono costituiti dagli stessi nazi-mongoli ed in seguito da truppe di rincalzo, soprattutto da bersaglieri repubblicani, i quali partiranno giornalmente dalle loro basi per compiere puntate sui monti, per braccare i partigiani superstiti e catturare gli sbandati.
E’ ora giunto il momento di parlare dei numerosi prigionieri di guerra che la divisione «G.L.» era riuscita a catturare in tanti mesi di attività. Erano, questi, militari tedeschi o fascisti, esponenti del partito fascista, uomini dell’ufficio politico di Piacenza, spie del nemico; fra tutti primeggiava il federale Maccagni. Appena avuto sentore che il rastrellamento era prossimo, il comando divisionale aveva dato disposizioni alle brigate dipendenti affinché tutti prigionieri venissero convogliati verso Peli, affidandone la guardia ai partigiani della IV brigata. A Peli, quindi, convennero tutti i prigionieri del campo di concentramento divisionale del Mogliaccio, unitamente a quelli che si trovavano in nostre mani a Bobbio. Dopo la battaglia di Coli-Peli tutti quanti furono trasferiti dapprima in val d’Aveto e successivamente a Selva. Approfittando però dell’incalzare degli eventi e del conseguente sbandamento dei partigiani, molti riusciranno a fuggire e a raggiungere le colonne nazi-mongole, altri invece verranno di nuovo catturati e passati subito per le armi. A Selva i pochi superstiti verranno uccisi dagli uomini della scorta armata, perché sorpresi nel tentativo di evadere, aiutati in ciò dal parroco del paese, che resterà, purtroppo, compreso nel loro stesso massacro.
In questo periodo di tempo si ebbero le prime nevicate che peggiorarono le nostre possibilità di accantonamento. A Pietranera si sistemò il Comando nei locali della scuola elementare, mentre altrove gli alpini si alloggiarono nelle stalle, nelle cascine e nelle case di quella brava gente montanara. Il freddo si era però già fatto intenso e non pochi fra i miei uomini erano caduti ammalati. Alla mancanza di medicinali e di indumenti invernali si univa ora la penuria dei viveri.
Per supplire alla mancanza del sale, di notte si inviarono nostre pattuglie a prelevare acqua salso-solforosa a S. Martino e a Fonte Pineta, nei dintorni di Bobbio, e con quella si riuscì a preparare qualche vivanda calda. Per i primi cinque giorni del mese di dicembre l’attività della VII brigata veniva ridotta a quella di pattuglia e di sistemazione dei nuovi accantonamenti.
In questo periodo si inserisce lo sfortunato tentativo dei garibaldini della divisione «Cichero» di occupare Bobbio, tentativo mancato, perché i nazifascisti riuscirono a richiamare in aiuto forze maggiori. L ’attacco su Bobbio, purtroppo, rese furiosi i tedeschi, svelando loro la presenza di forze partigiane ancora valide, che essi avevano invece credute annientate o comunque disperse. Perciò il giorno 7 dicembre i tedeschi puntavano con forze considerevoli su Marsaglia e riuscivano ad occuparla; quindi, volgevano il loro attacco contro le nostre linee montane di Collepio-Poggio Rondino, ma qui venivano respinti e costretti a ripiegare nel fondovalle. Per misure precauzionali si rendeva però necessario lo sgombero del nostro ospedaletto da campo, che veniva così trasferito a S. Cristoforo.
Il giorno 12 dicembre, il nemico visto vano l’attacco frontale contro le nostre posizioni di Collepio-Poggio Rondino-Pietranera-Carana, effettuava un’ampia manovra di aggiramento. Mentre forze nazi-mongole risalivano da Ponte Organasco verso il Brallo, pressoché incontrastate dai garibaldini, altre forze costituite da tedeschi e da bersaglieri puntavano da Bobbio su S. Cristoforo per poi raggiungere il Brallo in quella direzione. Se la manovra fosse riuscita la VII^ brigata sarebbe stata chiusa in una morsa. Avuto sentore della minaccia incombente, diedi perciò ordine di ripiegamento a S. Cristoforo, tanto più che in questa località già si trovava la nostra infermeria, che andava difesa ad ogni costo.
Il trasferimento venne effettuato di primo mattino in mezzo alla neve che aveva ripreso a cadere durante la notte. Si trattava ora di tagliare la strada al nemico e d’impedirgli di prendere quota. Perciò raccolsi una squadra di audaci e la trascinai meco, mentre affidavo il resto degli uomini al cap. med. De Luca per la difesa ad oltranza dell’infermeria, nell’eventualità che io non fossi riuscito nel mio intento.
Di corsa attraversammo la roccia di Costa Ferrata per sboccare sul costone di Costa Gallina che domina il versante da Cerpiano a Fontanini, e lì prendemmo posizione in attesa che il nemico si scoprisse: ma di esso, purtroppo, nessuna traccia. Venni invece raggiunto poco dopo dal cap. De Luca, il quale allarmatissimo mi riferì che gli avversari erano ormai giunti a S. Cristoforo e penetrati nella parte bassa dell’abitato. Non visti avevano marciato sulla strada segnalatami da mia madre e da mia sorella ed improvvisi erano sbucati in paese. Soggiunse che molti degli uomini a lui affidati erano fuggiti senza combattere, che la situazione era caotica e che egli ignorava quale sorte fosse toccata al nostro ospedaletto. Con un’amarezza indicibile per la diserzione di uomini che ritenevo ormai sicuri — come tante volte avevano dimostrato —, ferito nell’orgoglio per essere stato giocato dal nemico, pentito di non aver prestato troppa fede alle due donne che per prime mi avevano svelato la minaccia, angosciato per coloro che ammalati o feriti non potevano certo difendersi e che ora potevano pensare che io li avessi abbandonati, di corsa rifeci la strada per S. Cristoforo.
Poco prima del paese incontrai altri miei uomini: li fermai e li trascinai meco, mentre il fido Tom, minaccioso, puntava la sua pistola verso i più titubanti. La situazione per quanto critica poteva però essere rimediata. Una notizia gradita mi riferiva intanto che i nostri degenti erano riusciti a porsi in salvo, grazie all’aiuto dei compagni e soprattutto delle due crocerossine Alice Ricci e Carla Lentoni, che li avevano sottratti alla cattura già sotto il fuoco degli avversari.
Non avevo sparato che qualche raffica quando avvertii presso di me la presenza di qualcuno. Credetti che si trattasse di qualche alpino venuto per darmi aiuto. Perciò senza voltarmi continuai a sparare. Gli avversari più prossimi non distavano più di 100 metri, ma resistevano tenacemente. Occorreva però insistere perché alcuni erano già stati visti cadere colpiti e se ne sentivano le urla di dolore. Quando mi voltai per estrarre dalla cassetta un nuovo nastro di munizioni, vidi accanto a me mia madre e mia sorella. Dunque, mi ero ingannato: erano loro le sopraggiunte, non già i miei uomini. Le due donne erano sbucate non so da dove e guidate più che altro dal loro istinto avevano saputo ritrovarmi per sentirsi sicure e più tranquille. In tutto silenzio si erano chinate dietro di me e mentre io ero intento a sparare si erano subito preoccupate di aiutarmi in qualche modo. Con le loro sciarpe di lana andavano infatti ripulendo dal fango i nastri del mio mitragliatore affinché l’arma non s’inceppasse. In questo preciso atteggiamento io le scorsi quando mi voltai e allora non seppi più resistere, perché con tutte le mie forze le abbracciai per tenerle più basse di quanto già lo fossero, vinto dalla paura che potessero venir colpite, più ancora che dalla commozione.
Subito dopo il combattimento raccolsi i miei uomini in attesa degli sbandati; constatai quindi che da parte nostra non si erano avute perdite, mentre quelle dell’avversario, per quanto non controllate, poiché i morti e i feriti erano stati portati via, dovevano essere sensibili, come ebbero a riferirmi in proposito i contadini del luogo.
Da Cernaglia scendemmo ad Erbagrassa sul greto del torrente Bobbio e poi sempre di notte, in mezzo a disagi di ogni sorta e alla neve abbondante, a piccoli gruppi attraversammo guardinghi la strada del Penice, sulla quale stava svolgendosi un movimento incessante di colonne tedesche, per raggiungere la zona di Lagobisione, a nord di Bobbio. Validissimo fu in tale evenienza l’aiuto dei contadini e soprattutto quello dell’alpino Ragaglia, che, esperto dei luoghi perché bobbiese, fece più volte con me la spola per guidare i singoli gruppi nell’attraversamento del tratto più pericoloso della strada. Riguardo allo sbandamento, che sulle prime si era verificato fra i miei alpini a S. Cristoforo, esso fu dovuto più che altro all’indegno comportamento di qualcuno che non solo allarmò subito i suoi compagni con notizie esagerate circa la consistenza numerica del nemico e la potenza delle sue armi, ma si diede anche alla fuga. Si trattava di persona sospetta, un alpino disertore dalla «Monterosa», che noi avevamo trattenuto, sotto sorveglianza perchè infido; dopo la battaglia di S. Cristoforo fu allontanato definitivamente dalla nostra brigata.
Nei giorni successivi la formazione veniva suddivisa in piccoli nuclei che si attestavano nell’ampia zona che da Mazzucca e Caborelli, immediatamente a nord di Bobbio, si estende sino a Fosseri nella valle di Mezzano Scotti, in modo da eludere lo spionaggio nemico che era allora molto attivo, per non rendere troppo palese la nostra presenza e per dar maggior scioltezza di manovra alla stessa brigata. Il comando di brigata veniva intanto messo a Chiappelli, ma al mio posto lasciavo il maresc. Mazzucco, poiché io preferivo dedicarmi al servizio di pattugliamento come appunto richiedeva la situazione. Fu appunto nel corso di uno di tali servizi che, passando nei pressi di Caborelli, ebbi ad incontrare una donna in lacrime, che correva disperatamente in cerca di aiuto. Era una povera madre fuggita di casa per invocare soccorso, perché le sue figliole si trovavano sole alla mercé di due turpi mongoli ubriachi. Con Barba 1° e Raveraz accorsi subito nel luogo segnalatomi e catturai i due nemici, arrivando appena in tempo per impedire la violenza. A stento riuscii a sottrarli al linciaggio da parte dei civili, ma poco dopo li feci fucilare nel canalone dei Longarini; sarà questo l’unico ordine di esecuzione da me impartito.
Il mese di dicembre e quello di gennaio furono per noi i mesi più duri di tutto il rastrellamento, perché ci trovammo costretti ad operare in condizioni terribilmente avverse, in un territorio ammantato di neve che spesso arrivava sino al ginocchio. A ricordo dei vecchi, pochi infatti erano stati gli inverni così rigidi e nevosi. Perciò, stremati dalla lotta, laceri ed affamati, esposti al freddo e alle intemperie, braccati come bestie da tutte le parti, costretti a continui spostamenti e ad un estenuante servizio di pattuglie e di sicurezza, provammo lo sconfortante senso che l’inverno più non dovesse finire e che la minaccia nemica più non avesse a cessare. Tuttavia, pur nello sconforto di una situazione tragica, mai crollò in noi la fede e la nostra volontà mai cedette contro il freddo, le intemperie, l’esasperante lunghezza del tempo, l’impraticabilità delle montagne e le notti perpetue passate di scolta.
C’è ancora un eroismo comune: la costanza, la resistenza alla perenne minaccia dell’insidia nemica, ma in quel comune eroismo ogni anima ha la sua canzone, il suo grido di sfida e la sua riflessione profonda. Tutto sarà possibile per questi alpini figli dei monti, la cui giovinezza era trascorsa tra pascoli e boschi e che già conoscevano i lunghi inverni vissuti nella neve, fra le tormente, questi alpini patriarcali nella fede, nei costumi, negli interessi e che ora si levano quasi a simbolo dei partigiani più umili e più forti, più devoti nel sacrificio.”

Italo Londei

(Articolo tratto dal N° 7 del 24/02/2022 del settimanale “La Trebbia”)

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