Il Carnevale è la festa profana per eccellenza, nella quale i valori tradizionali sono simbolicamente rovesciati e il massimo spazio è lasciato allo scherzo e alla crapula. Il suo contrasto con le fasi di rinuncia e raccoglimento è espresso nelle rappresentazioni figurate della lotta fra il Carnevale e la Quaresima, che ineluttabilmente gli dovrà succedere.
La nascita del Carnevale risulta essere molto complessa e misteriosa, in quanto è la stratificazione di numerosi riti di diverse tradizioni. Il Carnevale per una parte trova le sue origini nelle cerimonie romane dei Saturnali, i quali anticamente erano festeggiati nella Roma imperiale tra il 17 e il 23 dicembre. Essendo feste di eccessi e di sfrenata allegria, la chiesa tentò di spostare questi rituali per non turbare l’atmosfera natalizia, ma non vi riuscì del tutto. Infatti “le libertà di dicembre” le possiamo ritrovare nella notte di festa forzata della notte di San Silvestro.
L’origine dei Saturnali è tuttora oscura. Durante questa settimana di allegro caos veniva nominato in ogni comunità un rex Saturnaliorum che regnava fra banchetti, giochi d’azzardo (proibiti nel resto dell’anno) e danze che spesso si trasformavano in orge collettive. I ruoli sociali in questi giorni si invertivano: gli schiavi potevano prendere in giro il padrone e farsi servire a tavola.
Il Carnevale giunto sino ai giorni nostri è una festa completamente snaturata, una “contraffazione edulcorata” di quello autentico. Fino alla metà del Novecento, nel nostro territorio di indagine, alle celebrazioni del Carnevale veniva riservata una grande importanza, era la festa maggiormente sentita dalla popolazione.
Questo intenso legame tra il nostro territorio e il Carnevale è forse riconducibile alla presenza di un tempio dedicato a Saturno, situato dove ora sorge la chiesa di San Paolo: ciò risulterebbe da un documento trovato nell’Archivio di Stato di Milano da un nostro informatore durante una sua ricerca.
Del vero spirito del Carnevale nel nostro territorio si è conservato il senso di trasgressione e di euforia, tre giorni di eccessi al maschile. Infatti le donne vi partecipavano indirettamente, come padrone di casa pronte a cucinare prelibate pietanze oppure come compagne di danze. Questa mediata presenza non significava minor impegno o partecipazione, era semplicemente una differenziazione di ruoli all’interno della festa.
«Era la festa più grande dell’anno. Per gli uomini era uno spasso come per i bambini, le donne invece cucinavano e andavano a recuperare gli uomini ubriachi in giro la sera, però si mascheravano e ballavano. In quei giorni si sentiva cantare da casa a casa, tutti davano da bere e mangiare. Era un forte momento di socializzazione e di festa gioiosa nelle case. Le squadre a volte facevano anche delle piccole rappresentazioni teatrali.»
I ragazzi formavano delle squadre per cantare e ballare, giravano per le varie case, dove venivano accolti con ravioli e vino. Ogni squadra aveva il proprio giro per le frazioni. La sera invece si andava a ballare nelle case oppure nei locali dove si organizzavano i balli pubblici.
Nelle case c’era sempre la tavola imbandita per ospitare i cantori ed i suonatori, con vino, salame e ravioli. Era uno scambio, tra chi portava gioia e arte e chi invece donava ospitalità con tutto quello che ne consegue.
Questi festeggiamenti con i suonatori itineranti per più giorni sono ricordati anche in valle Staffora, val Curone, e val Trebbia, e tuttora praticati con piffero e fisarmonica nelle zone di Rocchetta Ligure (val Borbera) e di Garbagna (val Grue).
Erano riti socializzanti in cui le persone si conoscevano, si scambiavano notizie e a volte si fidanzavano.
Durante i giri che le squadre facevano casa per casa, si raccoglievano le uova.
La questua delle uova, che a Romagnese veniva fatta in occasione della Galina grisa a Pasqua, a Zavattarello veniva organizzata a Carnevale. Le uova raccolte, la cui simbologia illustreremo più avanti, non venivano consumate subito ma erano conservate ed utilizzate per la preparazione delle frittelle di San Giuseppe, dolce tipico di quella ricorrenza.
Così come nella Galina grisa, le uova venivano utilizzate per preparare un piatto collettivo; infatti le frittelle venivano preparate in una casa di Crociglia e distribuite presso la locanda del paese che si trovava a ridosso della strada. Capitava così che anche a semplici viandanti venivano offerte quelle prelibatezze.
Per quanto riguarda le maschere tipiche non ne abbiamo riscontrato l’uso; abbiamo solo raccolto il ricordo di un nostro informatore di un racconto fatto da sua nonna, risalente a fine Ottocento:
«Mi ricordo che mia nonna mi raccontava che non si usavano le maschere in faccia ma i vestiti: c’erano gli arlecchini e i bruton. Gli arlecchino erano donne con vestiti tutti agghindati di nastri colorati e un gran foulard sulle spalle; il foulard, invece di annodarlo, lo fermavano con degli anelli. I bruton erano uomini vestiti con sacchi legati in vita da una corda, e in mano tenevano una scopa per difendere gli arlecchini.»
Un’usanza altamente simbolica, ma non più praticata. Si può ipotizzare che l’arlecchino rappresentasse con i suoi nastri colorati la primavera, mentre il bruton, che vegliava su di lei, l’inverno che stava ormai scomparendo. Purtroppo «martedì a mezzanotte tutto era finito; si ritornava tutti a casa perché entravamo in Quaresima.» Infatti durante le settimane di Quaresima, così come durante quelle di Avvento, non si svolgono feste tradizionali e non si possono celebrare matrimoni.

Estratto dal sito http://www.appennino4p.it/riti