Il carnevale di Cegni

A Cegni, nell’alta val Staffora, il carnevale ruotava intorno alla drammatizzazione della fuga e cattura della maschera della Povera donna da parte dell’altrettanto grottesco marito, il “brutto”. La ragione per cui nelle valli delie Quattro Province solo a Cegni sia sopravvissuto e ricordato in passato un rito carnevalesco complesso, con forti analogie con carnevali alpini e sub-alpini dell’area piemontese, e in particolar modo occitana, ci risulta completamente oscura. Le più marcate analogie ci rimandano alla lontana baio di Blins in val Varacho (Bellino, val Varaita), nelle alpi cuneesì, dove ritroviamo la stessa struttura itinerante con riferimenti parodistici al rito nuziale, ed anche la drammatizzazione di un ballo di morte e resurrezione da parte della coppia centrale del corteo carnevalesco, vale a dire ìl vecchio (vièì) e la vecchia (vìèio). Va detto, senza con ciò voler pervenire a conclusioni azzardate per lo stato attuale delle conoscenze, che i contatti della val Staffora con il mondo occitano delle valli cuneesi hanno radici storiche e – anche senza scomodare l’accertata presenza di trovatori provenzali presso la corte dei Malaspina di Oramala — si concretizzavano fino a tempi recenti nei transito dei venditori di pesce conservato, gli anciuè che provenivano dai paesi della val Maira, valle ove erano in passato diffusi i riti delle baio, del tutto simili a quelle che ancora oggi si svolgono nella confinante val Varaita.
A Cegni, subito dopo l’Epifania si cominciava a girare per le case per raccogliere stracci con i quali confezionare i costumi carnevaleschi.
Secondo il racconto di Andrea Sala Drìottu, classe 1918, il cui nonno paterno impersonò la maschera del “brutto” nel 1869, il carnevale di Cegni aveva inizio intorno alle 10 del mattino quando Ì paesani si ritrovavano nel luogo destinato ad accogliere il ballo, una casa di due piani sita verso la parte superiore del borgo. Alle 10.30 aveva inizio il ballo, mentre fuori dal paese gruppi diversi di maschere si preparavano a convergere verso il luogo dove avrebbe avuto luogo il ballo della Povera donna. Verso le 12.00/13.00 facevano il loro ingresso i bambini mascherati, quindi gli “arlecchini” con cappelli di paglia, sottane con pizzi, calzettoni rossi e bianchi spaiati. Entravano quindi i “brutti”, i “secondi brutti”, i “terzi brutti”.
Alle 13.00 iniziava il ballo della Povera donna che culminava con la fuga della grottesca sposa, la quale andava a nascondersi in una stalla tra il fogliame destinato a fare il letto alle bestie. Il “brutto”, che indossava una cintura con campanacci di vacca, apriva la porta e fingeva di non vederla, inziando quindi a cercarla in giro per il paese, portandosi fino al limitare dell’abitato, in prossimità di quelle profondità di natura già simboleggiate dallo strame in cui la selvaggia sposa aveva cercato rifugio. Infine, il “brutto” rivoltava il fogliame con un rastrello di legno scovando la fuggitiva. I grotteschi sposi venivano quindi caricati su di una benna per il trasporto del letame e trainati nel percorso di visita alle case che aveva inizio dalla casa del parroco, in una sorta di tributo pacificante rivolto al ministro del culto cristiano da parte delle antiche maschere eredi di ritualità pagane da sempre invise ai clero.
Come si è accennato, oggi il carnevale di Cegni si presenta in un duplice svolgimento, vale a dire nella collocazione folcloristica e spettacolare in perìodo estivo (16 agosto), e in quella, che potremmo definire “funzionale”, in periodo invernale, il sabato grasso.
Nel primo caso si ha una spettacolarizzazione intenzionale dell’evento carnevalesco, “rappresentato” piuttosto che agito; nel secondo caso un vero e proprio rito, interno alla comunità, sebbene meno completo del primo, nel suo svolgimento, rispetto alle modalità tradizionali.
Al “carnevale bianco” — evento che richiama centinaia di persone ogni estate e che, a dispetto della veste formale, si discioglie poi nelle modalità di un’autentica festa tradizionale — va sicuramente il merito di aver tenuta viva l’immagine e la memoria dell’antico rito carnevalesco.
E’ però il carnevale d’inverno, pur nella sua forma semplificata, a restituire significato culturale e pregnanza simbolica all’evento.
Il sabato grasso, a metà pomeriggio, ha inizio il percorso della famiglia carnevalesca, davanti alla casa della “povera donna”, la grottesca sposa protagonista principale del rito insieme al suo simpatetico marito, il “brutto”.
La famiglia carnevalesca svolge il suo percorso rituale preceduta dai suonatori che si confermano così protagonisti essenziali della vicenda narrata dal carnevale. Fanno cornice variopinta le maschere degli arlecchini. Destituiti dell’energia molesta e sovvertitrice che caratterizza i loro omologhi in numerosi carnevali alpini, ne conservano invece la funzione regolatrice nei confronti del procedete del corteo.
Il rito carnevalesco si presenta, nei suo svolgimento attuale, con i caratteri dinamici propri di un fenomeno folclorico radicato nella tradizione e al contempo in via di riconfigurazione: da un lato, per adattamento alle mutate condizioni del tessuto sociale, dall’altro nella tensione verso un recupero di forme espressive proprie del rito originario, conosciuto dai più giovani solo nel ricordo o nel racconto degli anziani. Il tutto avviene però in forma del tutto spontanea, come risposta ad un bisogno profondo, piuttosto che ad adempimento di un dovere filologico.
Può accadere che il “marito” (o “brutto”), introduca la famiglia carnevalesca: marito e moglie, che saranno protagonisti del ballo arcaico, la madre di lui con il rispettivo coniuge (“i secondi brutti”) sulla cui paternità però si sollevano dubbi, secondo una logica dì parodizzazione del rito matrimoniale che è certo uno dei temi sostanziali del carnevale.
I suonatori (piffero e fisarmonica) chiamano all’uscita la “povera donna” e il coniuge eseguendo lo stranòt del ciclo matrimoniale con il quale la sposa veniva invitata ad uscire di casa per dare inizio al corteo nuziale. Talvolta la lacera sposa viene trasportata per le vie del paese su di una carriola riprendendo così l’atto del trasporto sulla treggia per letame presente nel carnevale del passato. Fulcro simbolico e culmine dello svolgimento del rito carnevalesco di Cegni è, come si è detto, l’arcaico ballo della Povera donna..

Paolo Ferrari
(Brano tratto da “Chi nasce mulo bisogna che tira calci” di Paolo Ferrari, Claudio Gnoli, Zulema Negro, Fabio Paveto)

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