
La storia del cibo è innanzitutto storia di persone. Poi è storia di comunità, di economie generate dal nulla, soluzioni escogitate per migliorarsi la vita, cammini intrapresi, imprese avviate. Insomma, una storia affascinante e spesso sorprendente.
Una di queste belle storie l’hanno scritta i “tortai” di Pertuso. Non chiamateli “farinotti”, per carità! La prendono male, si arrabbiano, almeno i pochi anziani rimasti. Il dizionario genovese compilato da Giovanni Casaccia a metà Ottocento definisce così i tortai: Tortajo. Voce dell’uso: quegli che fa e vende torte. Loro – i tortai di Pertuso – correggono l’illustre autore spiegando che l’identità del tortaio era legata alla produzione e vendita di torte e farinate, dicitura commerciale che identificava anche la tipologia di negozi. Bene così, Casaccia è avvisato, ora torniamo da capo.
Pertuso è una frazione del comune di Ferriere, il più esteso della provincia di Piacenza. Siamo sui monti dell’alta Val Nure, due passi dalla val D’Aveto. Il nome del Comune sembra richiamare un passato lontano legato all’estrazione del ferro, poi solo allevamento, agricoltura e vite in salita. Nel piccolo cimitero, situato vicino alla Chiesa di Rompeggio (Parrocchia di Pertuso), giacciono le spoglie dell’uomo che diede avvio all’epopea dei tortai di Pertuso. Si chiamava Pellegro Cavanna, classe 1857. A raccontare la sua storia è Nino Nicolini, pensionato di Sestri Levante, ex lavoratore del porto, genero di un tortaio, appassionato raccoglitore di memorie scritte e orali. Siamo nel 1870, il tredicenne Pellegro vive a Pertuso con la famiglia. Purtroppo, già a quella giovane età bisogna darsi da fare e cercare lavoro, perché in casa le bocche da sfamare sono troppe e le risorse sempre risicate.
Pellegro se la fa a piedi fino a Chiavari arrivando nella cittadina rivierasca senza alcun riferimento. Una donna del posto lo vede vagare spaesato e forse affamato. Lo invita a casa, lo rifocilla e gli trova un lavoretto come garzone in un’osteria, un locale come tanti nel quale si fanno anche le torte e la farinata, a quei tempi completamente sconosciuta nell’alta Val Nure. Pellegro si ambienta, lavora duro, si appassiona.
Diventa abile nelle cotture al forno e impara il mestiere di tortaio. A vent’anni sposa una ragazza del paese natio, nascono i primi figli. Qualche anno dopo tenta il grande salto trasferendosi a Genova per aprire un negozio di “Torte e Farinate” nel centro storico, per l’esattezza nella zona di Ravecca. Il lavoro è di sacrificio ma ripaga bene, tanto da richiedere nuove forze che Pellegro richiama dal suo paese. Lo raggiungono alcuni parenti ai quali insegna il mestiere.
Qualcuno apre nuovi negozi e a sua volta richiede altra manodopera dal paese natale e dalle frazioni vicine, (uno di quei borghi si chiama Farinotti ma con la farinata non c’entra nulla, era sede di numerosi mulini nei quali si commerciava la farina). Il mestiere si consolida e si diffonde nelle mani di questi “montanari” piacentini. Somma delle somme: negli anni Cinquanta del Novecento le botteghe di torte e farinate dei tortai di Pertuso e dintorni sono circa una cinquantina, gestite da membri delle famiglie Cavanna, Devoti, Cagnolari, Maloberti, Ponzini, Quagliaroli, Vaccari, Bisi, Testa e Conforti (c’è anche un Farinotti, ma bisogna dirlo sottovoce…).
Questi bravi artigiani sfornano torte di verdura, verdure ripiene, castagnacci e altre meraviglie, ma soprattutto farinata, uno dei cibi tradizionali cui i genovesi sono più legati. Almeno per un secolo questo caposaldo della cucina ligure rimane saldamente in mano “foresta”, se così si può chiamare chi vive due tiri di schioppo oltre il confine regionale, notoriamente differente da quello culturale. Non che i tortai di Pertuso siano liguri, ma un certo ascendente ligure lo dimostrano, e forse, senza nulla togliere all’Emilia Romagna, meriterebbero una cittadinanza onoraria. Sono loro ad aver alimentato – non solo metaforicamente – per oltre un secolo la tradizione della farinata. Qualcuno ha resistito fino agli anni scorsi; forse uno o due sono tuttora aperti, nipoti dei primi arrivati.
La farinata ha così i suoi genitori adottivi che l’hanno curata e moltiplicata negli ultimi cent’anni o poco più. Sempre dal racconto di Nino Nicolini, si apprende che numerosi tortai convinsero i figli a studiare per risparmiare loro una vita di fatiche e sacrifici. Il mestiere li aveva ripagati, certo, ma al prezzo di tante rinunce. E anche quando da pensionati hanno sistemato le case native a Pertuso, hanno cercato di dimenticare la farinata e le vite grame da bottegai agguerriti, le fatiche, le giornate infinite. Per fortuna qualcuno è andato oltre i ricordi vedendo nella farinata un elemento caratterizzante del paese e perciò uno strumento di promozione culturale. Lassù, sulla montagna piacentina, dove ti aspetteresti solo pancette, salami, formaggi stagionati e Gutturnio, nasce così la “Sagra della Farinata”. Fra quei crinali appenninici c’è un pezzo di storia della tradizione gastronomica ligure; un pezzo importante, da ricordare ogni volta che si gusta una fetta di farinata fumante. A Pellegro e ai suoi compagni di avventura va tutta la nostra riconoscenza.
Sergio Rossi
https://www.liguriafood.it/ (27/12/2022)
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