Giovanni Serbandini – Bini

Nato a Chiavari (Genova) nel 1912,
deceduto a Lavagna (Genova) nel 1999,
laureato in lettere, giornalista e parlamentare comunista

 

 

 

 

Figlio di una maestra e di un ferroviere, aderì al Partito comunista nel 1938 mentre si trovava come insegnante a La Spezia. Arrestato dalla polizia fascista, Serbandini fu processato dal Tribunale speciale che lo condannò a quattro anni di carcere. Già nel 1942 il giovane insegnante aveva ripreso l’attività politica clandestina e dopo l’8 settembre del 1943 fu tra gli organizzatori della prima banda partigiana che si era formata sulle montagne liguri, a Cichero.
Durante la Resistenza, Bini fondò e diresse il periodico Il Partigiano, che dall’agosto 1944 alla Liberazione fu stampato in quindici numeri a Bobbio, in Val Trebbia. Dopo la sconfitta dei nazifascisti, Serbandini fondò e diresse l’edizione genovese de l’Unità, che lasciò quando fu eletto deputato per il PCI. Parlamentare per due legislature, Bini è stato anche poeta. Fu lui a scrivere la motivazione della medaglia d’oro commemorativa consegnata ad Alcide Cervi, in memoria dei suoi sette figli caduti durante l’occupazione.
Sulla Resistenza, Serbandini ha pubblicato nel 1961, presso Guanda, una raccolta di versi dal titolo Poesie partigiane.
Nel dicembre del 2004, la città di Lavagna, in collaborazione con la sezione locale dell’ANPI, ha deciso di intitolare a Serbandini la propria Biblioteca civica.

Una poesia di Giovanni Serbandini:

E quando non potremo più andare
per la vecchiaia o i malanni
su questo monte ci faremo portare
a dorso di mulo.
Batterà il cuore,
con l’ansia della prima azione
tentata quasi senz’armi,
al riconoscere nell’aria pulita
le foglie che allora ci salvarono,
le cime e i paesi familiari
con i distaccamenti
usciti più forti
nonostante Alexander
dai rastrellamenti invernali.

E se, risuonando
il nostro nome partigiano,
una mano ci stringerà
scura di fatica,
la vedremo in ogni casa contadina
spartire con noi la minestra,
indicarci la strada o il nemico,
una rude carezza passare
sul collo del mulo tornato
all’alba nel paese distrutto
scappando ai predoni fascisti.

Il vento scuoterà le fronde
come bandiere e i volti
riappariranno – giovani volti
dalle ferite segnati
e più dalla consapevolezza –
di Beppe, Cialacche, Berto, Pinan
e degli altri che dissero:
“Solo mi dispiace
di non poterci essere
alla battaglia finale”.

Eppure con loro scendemmo
bloccate le strade al nemico,
e già con il loro nome
si chiamavano nelle fabbriche
nelle strade i fratelli
insorti a migliaia con l’arma in pugno.
Soprattutto a loro
il generale tedesco si arrese
quel venticinque d’aprile.

Se dunque più dei malanni
o della morte ci pesa
l’ipocrisia dominante,
oh non temete:
questo abbiamo fatto
e questo resterà
luminoso come il sole
sulle foglie del monte.

Da Poesie Partigiane, Guanda, 1961

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