Storia di una valle e dintorni – 15a parte

La battaglia di Monticello

Il 15 aprile (1945) il castello di Monticello, che si trova sulla riva sinistra dei Trebbia, e che domina tutta la regione compresa tra l’imbocco della val Trebbia e quello della val Luretta, era presidiato da un distaccamento della VII^ brigata comandato da Barba 2° con 25 uomini.
Mentre il commissario Gino Cerri, il comandante stesso del distaccamento e il partigiano Tom si trovavano in ricognizione sul monte Pillerone, alla sera di quello stesso giorno, ritornando al castello ritrovavano, ospite momentaneo, il comandante della XI brigata, Muro, con 6 uomini. La ricognizione che era stata fatta sul monte Pillerone, di fronte al castello di Monticello, aveva dato esito positivo: il monte era occupato dalle S.S. del battaglione «Nettuno», armatissime e in assetto minaccioso. Il commissario Gino Cerri provvide ad avvertirmi subito del fatto, invitandomi a muovere immediatamente da Bobbio all’attacco delle S.S. con i russi, che avremmo in quel giorno messo alla prova per la prima volta. Quando Barba 2° si era assunta la responsabilità di non ottemperare all’ordine del comandante Fausto, si era nello stesso tempo accordato col comandante della IX brigata, il «Valoroso», che in quel momento teneva a breve distanza la posizione di Monteventano. L’attacco delle S.S. si scatenò più rapidamente di quanto si potesse prevedere; non sorprese tuttavia i nostri che avevano predisposto un turno di guardia e avevano già ordinato i piani della difesa. A questo punto si dovrebbe svolgere la descrizione degli avvenimenti che caratterizzarono la giornata del 15 aprile: la battaglia durò dalle 4 alle 11 del mattino. Il fatto che io non fossi presente mi obbliga ora a servirmi per tale narrazione di alcune importanti testimonianze che mi vengono da coloro che parteciparono all’azione e vi ebbero parte preponderante. Scelgo fra queste la testimonianza più viva e più completa, quella che è rappresentata dalla relazione scritta da Barba 2°, comandante di quel distaccamento della VII^ brigata. La precisione e la fedeltà di tale documento è provata dal fatto che i contenuti coincidono con quanto leggiamo nelle testimonianze di altri protagonisti. Ritengo perciò opportuno citarla direttamente.
«Il giorno 5 aprile, dal mio comandante ricevo l’ordine di trasferirmi con i miei uomini a Monticello di Gazzola, con compiti offensivi contro alcuni battaglioni di S.S. e brigate nere, dislocati nella zona di Montechiaro-Cisiano-Fabbiano-Rivergaro, nella bassa Val Trebbia. Partimmo da Cascina Boschi di Mezzano Scotti e arrivati a Monticello prendemmo alloggio nelle stalle vicine. Con noi si trovavano pure il commissario di brigata Gino Cerri e il partigiano Gobbi Francesco (Tom). Dopo esserci fatta consegnare la chiave della scuola elementare, che ha sede nel castello locale, cominciammo ad organizzare la cucina e i dormitori. All’alba del giorno 8 una compagnia di S.S. ed una di brigate nere, dislocate a Cisiano di Rivergaro, occupavano la cima del monte Pillerone, senza incontrarvi alcuna resistenza: la posizione era tenuta dagli uomini di un distaccamento della XI^ brigata, i quali dormivano tutti nelle stalle vicine alla quota. Sulla cima del monte vennero piazzati i mortai da 81 mm. e due mitragliatrici pesanti, col compito di dominare le nostre posizioni di Monticello. Ogni giorno dalle 12 alle 19 i nemici facevano esercitazioni di tiro per colpire le nostre postazioni o dove potevano scorgere degli uomini. Il giorno 11 ricevemmo l’ordine di abbandonare Monticello per ripiegare a S. Giorgio di Bobbiano.
L’ordine proveniva dal comando divisionale, giustamente allarmato per gli attacchi di sorpresa che gli avversari erano soliti compiere. Mi consigliai con Gino Cerri: insieme decidemmo di rimanere a Monticello e di ritirare le nostre postazioni all’interno del castello. Il giorno 12 con lo stesso commissario mi recai a Monteventano, dove si trovava la brigata autonoma del comandante « Valoroso ». Discutemmo insieme del pericolo che potevamo incontrare rimanendo trincerati nel castello, ma il «Valoroso» e il suo vicecomandante Romeo ci assicurarono che avrebbero perso la vita pur di soccorrerci in caso di accerchiamento.
Ritornati a Monticello disponemmo le nostre squadre così suddivise: 1) Sul campanile della chiesetta, che sta addossata al castello sul lato est, la squadra di Pedralli, Ramponi, Morselli, Lodrini, Bassi; 2) Nel salone del lato nord la squadra di Piersanti, Zanelletti, Gaio e 4 russi; 3) Nell’aula della scuola, sempre al lato nord, la mia squadra con Soardi, Cerri 1°, Mazzari, Albasi; 4) A pianterreno, a presidiare l’entrata est del castello, che era sprovvista di portone, la squadra di Gino Cerri, Tom, Stefanini (Balilla), Bernava, Bergantin, Scarezzato, Mascotto.
Il giorno 14 i rimanenti uomini del mio distaccamento, comandati da Leggi 1° e da Mazzocchi partivano in missione verso la pianura per ritirarsi poi il giorno 17. Nella giornata di domenica, 15 aprile, due pattuglie di 6 uomini ciascuna, comandata dal sottoscritto e da Gino Cerri, si dirigevano verso la cima del monte Pillerone, per studiare le possibilità di un nostro attacco di sorpresa, come eravamo stati abituati a compiere tante volte durante i duri mesi della lotta partigiana. Arrivammo a pochi metri dalla vetta strisciando sul terreno boschivo che si estende dalla parte di Monticello; studiammo con ogni cura le posizioni del nemico e i sentieri più facili per salirvi; non vedemmo nessuno degli avversari, solo due militari di guardia alle postazioni, perché tutti gli altri stavano riposando in luogo defilato alla vista. Ci ritirammo soltanto all’imbrunire per non farci scoprire e arrivammo a Monticello alle ore 22.
Qui trovammo il comandante Muro con 6 dei suoi uomini, che ospitammo a dormire nella paglia con noi. Dopo aver cenato tutti andarono a prendere le loro postazioni, stanchi della missione compiuta. Io, Cerri, Tom e Muro rimanemmo invece a discutere dell’attacco al monte Pillerone, che si doveva effettuare nella notte del giorno 17; ad esso avrebbe preso parte il nostro stesso comandante di brigata coi russi del distaccamento di Vaccarezza, comandato da Ambrosio. Quando, dopo esserci salutati, entrai nella mia postazione, trovai tutti gli uomini addormentati, per cui feci loro una reprimenda un poco burrascosa. Decisi io stesso di fare la guardia alla finestra, perché presagivo il pericolo che ci sovrastava. Dopo 20 minuti venne da me la sentinella di turno, alpino Soardi, per dirmi — e lo giurò dinanzi al Crocefisso appeso alla parete della scuola — che appena si fosse sentito stanco avrebbe provveduto a svegliarmi per avere il cambio. Mi coricai alla 1,30, stanco delle camminate fatte durante la giornata.
Alle 3,40 una voce sommessa e trepidante mi svegliò: «Barba, Barba… Ci sono»: era Soardi che parlava sottovoce. A me sembrava di sognare e stentai ad aprire gli occhi, ma Soardi mi prese per un braccio e a forza mi scosse. Mi appressai allora alla finestra: nella tenue oscurità della notte che ormai volgeva al suo termine potei scorgere una lunga colonna di armati su due file, a 5 metri una dall’altra. Costeggiavano la costa che da Pigazzano-Buffalora porta a monte Bissago. Parte di essi stava già piazzando le mitragliatrici pesanti sulla collinetta che domina le nostre finestre e tutto il castello dal lato nord. Alcune pattuglie di arditi avevano già compiuto il giro attorno al castello, senza incontrare nessuno di noi, per cui sottovoce dicevano: «Li prendiamo tutti vivi, perché stanno dormendo». Intanto un gruppo di 10 ufficiali, che sostavano a circa 10 metri dalla nostra finestra, davano gli ordini ai loro uomini per far irruzione all’interno del castello, attraverso il portone senza battenti che si trova dal lato del campanile. Erano le 3,55 quando ci facemmo il segno della croce e Soardi, rivolto al Crocefisso ebbe a dire una preghiera per tutti: «Dio, proteggi i peccatori!». Subito dopo lanciai dalla finestra la prima bomba anticarro, che scoppiò a brevissima distanza dei nemici che stavano sotto. Quasi contemporaneamente Soardi imbracciava il suo mitragliatore M. G . 42 ed apriva il fuoco. Quel tonfo e quegli spari diedero l’allarme generale a tutti i difensori del castello; cominciarono a sentirsi le grida dei feriti e i lamenti dei moribondi. Passato qualche attimo di sbandamento, i nemici attaccarono, sparando con tutte le armi, compresi i panzer-faust, che avevano portati sulla linea per far breccia. La quantità dei proiettili che investivano la nostra finestra ed entravano nei locali era una cosa indescrivibile.
Dilaniavano i muri verso l’esterno, tranciavano il ferro delle inferriate e molti penetravano nell’interno, forando e scrostando le pareti, mentre nugoli di polvere e di calcinaccio si abbattevano sulle schiene curve dei difensori e rodevano loro i polmoni. Fummo perciò costretti a ripararci nella tromba della scaletta a chiocciola, che sta a fianco dell’aula. Qui cominciammo a pulire le armi impolverate e a prepararci per la difesa ad oltranza; alla nostra finestra più non era tuttavia possibile avvicinarsi, perché tutte le armi battevano il luogo dal quale era partito il nostro primo colpo d’allarme. In tal modo le altre nostre postazioni potevano entrare in azione ed avevano via libera per decimare il nemico. Eravamo però isolati: ogni gruppo combatteva separatamente la sua battaglia, ma con ordine e sincronismo, come se una mente superiore dirigesse la scena. Un grande valore morale di quella giornata sta quindi nel fatto che i patrioti, pur combattendo separati, non abbiano permesso da nessuna parte l’entrata del nemico. Sarebbe bastato un atto di vigliaccheria da parte di un mitragliere e l’edificio poteva essere invaso attraverso una delle numerose sue entrate. Ma i mitraglieri della VII brigata erano esemplari per servizio e fedeltà al dovere, come si era dimostrato anche in altre occasioni. Inoltre, Tom si mostrò un tiratore scelto, Piersanti fu ottimo come sempre, Soardi, Ramponi, Pedralli, Zanelletti anch’essi e così tutti gli altri. Il «Balilla» tenne su il morale gridando e scherzando.
Sette ore di combattimento, uno contro più di venti, provò ancora una volta di che tempra fossero gli alpini e i loro comandanti. Le camere piene di fumo e di scoppi, i lamenti dei feriti, i cupi boati delle granate che ogni tanto venivano a coprire il ticchettio rapido delle mitraglie, non valsero a smuovere la ferrea volontà dei difensori, decisi di resistere fino alla morte. I nemici attoniti d ’incontrare una simile e organizzata resistenza, cominciarono dopo qualche ora di combattimento a dar segni di stanchezza e di sbandamento. Alle ore 7,30 la nebbia e il fumo dell’incendio cominciarono a dileguarsi e noi tutti pronti per cominciare a colpire i mitraglieri avversari che stavano sdraiati fra le erbe dei campi che circondano il castello dal lato nord: dove si notava un elmetto si cercava di mirare per mettere fuori combattimento gli inservienti dell’arma. Dopo aver visto colpiti con tiro sicuro alcuni dei loro, i nemici furono costretti a ripiegare. Alle ore 8 Gino Cerri abbatteva il muro che dal sottoscala confina con La cucina: potemmo in tal modo metterci in comunicazione anche con lui. Io intanto scendevo al piano terra per vedere come si presentava la situazione. Trovai Muro, che si congratulò per il mio attacco. A questo punto, verso Moglio, dalla parte di Monteventano, scorgemmo degli armati e vedemmo muoversi tra gli alberi, ma a causa del fumo e della nebbia, non potemmo subito capire se fossero dei nostri oppure repubblicani. Per averne conferma lanciai allora tre razzi con la pistola «Very»: bianco, rosso, verde, i colori della bandiera, segnale convenuto in precedenza col «Valoroso». Subito questi con 5 dei suoi uomini si avvicinò al castello dal lato sud e s’incontrò con Gino Cerri e con Muro. Questo congiungimento avveniva alle ore 8,50 circa.
Il «Valoroso» salì subito nella scuola per stringermi la mano e per baciarmi, mentre andava gridando: «Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!». Gli feci però notare che nel vallone, che da Moglia porta alla fontana e alla strada che conduce all’osteria, c’erano ancora molti nemici, circa 300, rinchiusi come in una morsa. Gli dissi perciò di non voler avanzare troppo nel campo che sale alla collinetta che domina a nord il castello. Egli mi strinse ancora la mano in segno di saluto e di augurio, mi disse di non abbandonare la mia postazione, dopo di che, insieme a Gino Cerri, partì per l’assalto decisivo. Intanto, alle 9,25 una granata avversaria colpiva il solaio della postazione di Zanelletti, e dopo aver forato il tetto penetrava all’interno scoppiando. Tutti rimasero feriti, per fortuna non in modo grave, e furono costretti ad abbandonare il loro posto di combattimento. Questo accadeva proprio nel momento più cruciale della battaglia, quando i nemici, correndo allo scoperto, si ritiravano lungo la strada che conduce all’osteria. Così rimanemmo soltanto io e Pedralli a fare il tiro a segno. Quando ebbi ultimato le munizioni della mitraglia, imbracciai il mitra e continuai il fuoco con quello. Anche Tom, Scarezzato e gli altri dalle loro postazioni falciavano gli avversari in ritirata. Nel frattempo il « Valoroso » e Gino Cerri, alla testa dei loro uomini, cominciavano l’assalto con panzer-faust tolti al nemico e con bombe anticarro. I repubblicani, sconvolti e terrorizzati dalla micidiale azione dei partigiani, ridotti all’estremo, gettarono le armi e si diedero ad una fuga disordinata. Alle 9,40, visto lo sbandamento provocato nelle file nemiche, il «Valoroso» insisteva nella sua azione travolgente ed avanzava ancor più nel vallone che porta alla collinetta, allo scopo di farsi notare da noi, che lo proteggevamo col nostro tiro. Infatti dal basso ebbe a gridarmi: «Barba, Barba, non sparare che siamo noi». Gli risposi allora: «Va’ via, che ti fai ammazzare. Non vedi che c’è pieno di loro», allarmato dalla presenza dei numerosi nemici che ancora potevo scorgere dall’alto. In quella una raffica di fucile mitragliatore lo investiva, colpendolo al ventre. Cadde senza un lamento. Fu subito soccorso dai suoi uomini e trasportato nelle vicine case di Moglia. Malgrado le cure prestategli spirava poco dopo tra lo strazio dei suoi. Le sue ultime parole furono: «Siate bravi patrioti, curate i feriti, non maltrattate i prigionieri e perdonate agli italiani che non la pensano come noi… Viva l’Italia! Viva i partigiani!».
La battaglia cessò alle ore 10,50.
Alle 16 tornammo al castello, dove mi raggiunse l’oste di Monticello per dirmi che c’era a casa sua un prete che cercava il comandante dei partigiani. All’osteria trovammo il parroco di Pigazzano, che si disse venuto per parte dei nemici, per chiedere una tregua di 48 ore a partire dalle ore 16 del lunedì alle 16 del mercoledì 18 aprile. In nome del mio comandante di brigata accordai la tregua e firmai per lui il documento relativo, che fu stilato in triplice copia. Il giorno 17 vennero consegnate 56 salme; fra le quali 10 di marescialli, 6 di sottotenenti, 2 di tenenti, 5 di sergenti e una di capitano delle brigate nere. Quest’ultimo, accortosi che 5 dei suoi uomini stavano per arrendersi a noi, li falciò con raffiche del suo mitra. Allora Pedralli, disgustato per quest’atto infame, lo uccise con una raffica della sua mitraglia, proprio sulla porta dell’osteria.
Le perdite partigiane furono di 5 uomini: Gino Cerri, il «Valoroso», «Cicogna» (Ciceri Carlo) della IX brigata, Passerini Aldo e «Nestore» della III brigata. I nostri feriti furono 7: Bernava, Piersanti, Tom, Morselli, Soardi, Zanelletti e Lodrini. Seppi da Soardi che alcuni prigionieri nemici credendo di farsi benvolere da noi si erano messi sul bavero delle stelle rosse e che Muro gridò loro di vergognarsi».
Qui finisce la relazione della battaglia di Monticello, fatta da Barba 2° (Annoni), partigiano alpino della VII^ brigata.”

Italo Londei

(Articolo tratto dal N° 10 del 17/03/2022 del settimanale “La Trebbia”)

 

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