Caproni a Rovegno. L’altra Liguria persa nel verde.

L’autostrada ve la dovete scordare a Lavagna, perché da lì in poi saranno solo bellissime provinciali in mezzo a un verde quasi cupo, fra le montagne. Una cinquantina di chilometri passando da posti che si chiamano Carasco, Prato Officioso, Pian dei Ratti, Acqua di Sotto e, naturalmente, Acqua di Sopra, e poi Barbagelata, e prima ancora il passo della Scoglina… E su su per una strada minuscola che si attorciglia come un filo difficile da sdipanare. E alla fine, quando non ci credete quasi più, ecco la Statale 45, che è anche il titolo di una sua poesia, ed ecco Loco di Rovegno, in val Trebbia. E vi trovate in un paese minimo, immerso in un verde raro, isolato e quasi nascosto. Non siamo venuti qui per caso, né per vedere gli splendidi aironi della Trebbia. È che qui per quasi tutta la vita trascorse le estati Giorgio Caproni, che in questo paesino aveva insegnato in gioventù (era maestro elementare) e aveva conosciuto la ragazza che sarebbe divenuta sua moglie, Rosa Rettagliata, la Rina delle sue poesie. Da allora ogni anno lasciava la casa di Roma e stava qui, dove ora riposa, da quando è scomparso a 78 anni nel 1990. Accanto, come sempre, Rosa.
Non era di qua. Era, caso curioso, di una città di mare, Livorno, ma gli piaceva questa terra di valle e di montagna; e si sentiva anche ligure, perché a Genova si era trasferito con la famiglia a dieci anni. A Genova, una specie di metaforico labirinto amato e temuto, aveva anche dedicato una lunga “Litania” quasi liturgica, in cui ogni strofetta inizia proprio col nome della città:

Genova mia città intera.
Geranio. Polveriera.
Genova di ferro e aria,
mia lavagna, arenaria.
Genova città pulita.
Brezza e luce in salita.
Genova verticale,
vertigine, aria, scale..
(dalla raccolta “Il passaggio d’Enea”, 1956).

Era, Caproni, un grande poeta che aveva reinventato la rima, questo strumento antico e così disusato o almeno mimetizzato nel Novecento, e che in lui era un ritorno di musica, un modo per chiudere nella perfezione e limare versi sempre più sottili.
Del resto se mai c’è stato un poeta per cui lo scrivere era professione meditata, quasi lenta, fatta di riflessione e maturazione quasi giorno per giorno, questo è Caproni.
Una poesia composta fra molte altre attività, dal maestro al giornalista al traduttore: di Proust, soprattutto. Una poesia come una cosa che cresceva dentro, che partiva dal magma e arrivava alla chiarezza, limpida e senz’altro non ermetica, almeno ai suoi inizi. Metafore che si distendono, preziosismi lessicali che si illuminano al lettore, improvvisi:

Sono donne che sanno
così bene di mare
che all’arietta che fanno
a te accanto al passare
senti sulla tua pelle
fresco aprirsi di vele
e alle labbra d’arselle
deliziose querele
(da “Finzioni”, 1941).

Il mare, naturalmente; ma anche il bosco, il verde, le valli e queste montagne piene di foreste, insomma un’altra Liguria, non aspra come in Montale ma come liberata, pura e intatta:

Al bel tempo di maggio le serate
si fanno lunghe; e all’odore del fieno
che la strada, dal fondo, scalda in pieno
lume di luna, le allegre cantate
dell’osterie lontane, e le risate
dei giovani in amore, ad un sereno
spazio aprono porte e petto…
(“Maggio”, da “Finzioni”)

Siamo venuti per questo a Loco. Qui accanto, a Fontanigorda, un Centro culturale ha il suo nome, e vi possono ancora indicare le “passeggiate di Caproni” fino all’orto dell’amico Albino Barbieri:

Tutti quei fiori…
Quei fiori così forti negli occhi
fin quasi a spaccarli…
(“Guardando un orto in Liguria”, in “Res amissa”, postumo, 1991)

I paesi amano i poeti; le città li tollerano appena. Alessio, che incontriamo per caso, ci informa con una competenza e una passione degna di essere ricordata. E qui tutto questo affetto per lui si sente, si ascolta nel vento leggero e nel profumo dell’erba, qui dove camminò con il figlio:

Portami con te lontano
…lontano…
nel tuo futuro.
Diventa mio padre, portami
per la mano
dov’è diretto sicuro
il tuo passo d’Irlanda
l’arpa nel tuo profilo
biondo, alto
già più di me che inclino
già verso l’erba…
(“A mio figlio Attilio Mauro che ha il nome di mio padre”, in “Il muro della terra”, 1975)

Qui, Caproni approdava dal suo labirinto inquieto, qui riposava nella sua Valchiusa. Qui coglieva la bellezza ma anche la caducità, anche nei fiori dell’amico:

In guardia…
Basterà che li tocchi
una voce, e il gelo
ne coprirà all’istante
la vampa
farà di cenere il cielo…

La casa, grande e squadrata, senza orpelli, è all’inizio del paesino, dove la strada, la Statale 45, fa una leggera curva. Dopo centro metri, le case finiscono e tornano l’erba e i prati, e gli alberi e i boschi. Sulla facciata c’è la lapide bianca, il ricordo degli abitanti di questo posto lontano e raccolto, dove quest’uomo che apprezzava la solitudine ma amava gli amici leggeva, scriveva, camminava, si perdeva un po’ nel verde.
L’aveva scritto, quasi in una confessione a bassa voce: “In realtà in poesia non si tratta tanto di capire ma di sentire: cioè non si tratta tanto di apprendere delle idee esplicitamente dette, ma di provare emozioni e sentimenti capaci, semmai, di suscitare tali idee ‘che non sono state dette’ ” (“Poesia chiara e oscura”, 1957). Ci è sembrato un passo di riflessione civile, anche profondamente morale, come di chi sentisse forte il bisogno di uscire dal suo labirinto e di venire e rimanere fra questi monti, fra il verde e gli aironi dell’alta val Trebbia. Qui, si ritrovava:

L’ultima mia proposta è questa:
se volete trovarvi,
perdetevi nella foresta”

aveva scritto in una lirica di soli tre versi (“Per le spicce”). Lì, forse, anche la poesia si faceva limpida, si riconosceva.

Roberto Fedi (robfedi@tin.it)

 

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