Il fascino della valle dell’Aveto e dei villaggi in sponda destra

Selve “Selvagge, aspre e forti” di Piacenza e Genova, in Val d’Aveto, tra Orezzoli Là e Vico Soprano, formano uno degli ambienti più belli della nostra montagna. Una strada carrozzabile si snoda molto sinuosa e quasi pianeggiante tra i loro estremi, a mille e cento metri di altitudine ed oltre 5 Km di sviluppo. Dal Passo del Pescino, in comune di Ottone (PC), all’antica frazione di Rezzoaglio (GE), detta via, favorisce e sostiene un viaggio avvincente! Il fruitore s’intinge, s’immerge in una natura esuberante. Si aggira, divaga tra “effetti speciali”, sorprese, emozioni sempre diverse e nuove. Passeggiando contempla.
Risveglia ricordi assopiti. E’ indotto a spalancare porte e finestre su ciò che ha intorno; su ciò che ha dentro. In primavera avanzata le faggete, verde brillante, compatto e mosso, fioriscono nello splendore del maggiociondolo, oro lucente, prezioso. L’effetto è incanto e stupore. Pura meraviglia, magico virtuosismo. Venezia, miscelando i colori giallo e verde con dotta sapienza, ha prodotto il miglior cromatismo della sua artistica civiltà. Sui monti della Val d’Aveto abbiamo, dunque, un po’ di Venezia! Sarà venuta a copiarci?
L’Aveto nel suo stretto solco profondo, più che scorrere, rotola. Inciampa, scivola, cade. Pencola. Si risolleva; ricade. Geme sofferente: tormentato filamento, dalle sponde, talvolta, a perpendicolo o quasi. Moto agitato il suo, anche quando brioso dialoga, e bene s’intende, con i verdi dalle infinite sfumature di boschi e pascoli. Quando intrattiene, correndo, breve colloquio con rocce glabre. Guglie; pennacchi. Alture. Slanciate solitudini. Avvallamenti e frane. Sulla sua superficie il sole risplende, ma per poco. Quel tanto che basta, però, a svelare un’acqua azzurra, fresca, pulita. Splendido smeraldo, come il suo sovrastante cielo. La spuma, figlia di scogli, correnti improvvise in contrasto e fuga; gradoni, balzi, inciampi; gorghi, spirali e asperità infinite… richiama poetiche meraviglie. Bianche nuvole. Nebbie e fumi di nostri agitati affanni.
Il fiume raramente, dunque, appare linea morbida, docile, tenue. Elastica flessibilità. Movimento lento, rassicurante, indulgente. E in ciò si specchia, si esalta, si esprime la suggestiva, selvaggia (primitiva), bellezza della sua valle. L’Aveto con gli affluenti, infatti, si muove sempre nervoso; inquieto, inquietante. S’increspa, s’aduggia. Non trova (non cerca), quiete e pace. Si annoda, si snoda e riannoda in sempre nuove trame. Provvisori legami d’artistiche geniali, conturbanti invenzioni. Imprese audaci, spontanee, istintive, senza limiti, in tutte le direzioni. Ecco, formidabile, lo “Slancio vitale” di quel “Grande” fiume.
Durante il cammino osservo i borghi e i villaggi della sponda destra dell’Aveto. Le case, le chiese, le cose. Gli stupendi campanili che indirizzano l’animo al cielo… Vedo mirabili “fasce”, verdi e pianeggianti. Contemplo le pietre, squadrate con forte tenacia, a composizione dei muri di sostegno, nel corso di chissà quanti secoli. Percepisco una natura riottosa, in gran parte addomesticata con bel disegno e resa servizievole dagli antenati, mediante impegno e sacrifici inimmaginabili.
In un vecchio cimitero della valle (anni Sessanta del secolo scorso), un’epigrafe recitava: “Qui giace… che nella sua umile, laboriosa esistenza molto ha dato alla religione, alla famiglia, al prossimo”. Al di là dell’apparente retorica, quelle parole esprimevano alla perfezione l’essenza della vita in montagna. Motivo conduttore di pensiero e azione della nostra gente: “Poco a se stessi; tanto a tutti gli altri”. Da tale concetto, di certo, deriva il meraviglioso patrimonio, materiale e spirituale, che abbiamo ereditato. Prendiamone atto. Cerchiamo di esserne degni. Manteniamolo vivo, specie nella memoria delle nuove generazioni.
Ancora nel secolo scorso (almeno nella prima metà), i vari paesi della Val d’Aveto erano densamente abitati. Il territorio circostante curato al massimo grado con affettuose manutenzioni e continuative migliorie. Immagino centinaia di persone di ogni età e condizione, impegnate nella quotidianità contadina: sparse; ovunque diffuse. Cattaragna, Castagnola, Boschi, Torrio… Tutto, là, era orto, giardino, prato, pascolo. Flessibilità di granaglie. Vigneto dai pingui grappoli. Greggi e armenti.
Castagneti generosi, estesi, ordinati. Immagino gente che andava e veniva. Mi sembra di risentire lontani, incerti brusii. Voci vivaci, canti e cori. Intuisco incontri fugaci. Sguardi. Percepisco pensieri, timori, ansie. Auspici. Illusioni. Sorrisi. Nel passato rurale della valle il sole saliva e scendeva nei cieli infiniti. Guardava e vedeva. Riscaldava e bruciava. Illuminava. Evaporava sudori. Tormentava. Rasserenava e ristorava. Ma tramontava sempre troppo presto. Troppo! Su quel “Piccolo, grandissimo, mondo antico”! Numerose mulattiere s’intersecano, improvvise. Ho provato a percorrerle. Durissime. E gli antenati vi si muovevano con pesanti carichi sulle spalle! Talvolta, però, erano liete brigate, direzione Ottone, a transitarvi.
Massima vacanza, attesissima “Crociera”, raro viaggio esotico di tempi non lontani, ma ormai passati per sempre. Erano i giovani e giovanissimi dei vari paesi della Val d’Aveto. Quelli della sponda destra avevano molto più strada e dovevano attraversare il fiume. Il passaggio avveniva su teleferiche dove il “seggiolino” consisteva in un tronchetto di robusto, rassicurante corniolo. Partivano in gruppi numerosi. I fratelli maggiori avevano responsabilità sui minori e, soprattutto, sulle sorelle. Andavano alla fiera di Ottone. Un grande evento, generatore di emozioni forti, studiato nei dettagli, mesi prima. Giunti a Ottone, oltre a esprimere quanto descritto da Leopardi circa la gioventù di Recanati: “Tutta vestita a festa… per le vie si spande; mira ed è mirata, e in cor s’allegra”, provvedevano a commissioni varie e comandate. Ma alcune ragazze si staccavano subito dal gruppo (Le loro “vasche” e i loro acquisti personali sarebbero venuti dopo). Con determinazione timorosa, si recavano dalla parrucchiera per la “Permanente”, aspettando pazienti il loro turno.
A metà del secolo scorso cominciava a soffiare, anche in montagna, il vento della modernità con forza energica e i giovani erano, ovviamente, i più sensibili. Tornate al paese lo specchio avrà di certo gratificate quelle adolescenti, ed anche vie e piazze avranno osservato la novità (non so se applaudendo). In casa, però, nessuna di loro osava “ostentazione cosmetica”. Il loro ardimento in famiglia doveva rimanere segreto assoluto. Prezzo di quella temeraria novità. Il “fazzoletto da nodo”, compagno fedele e discreto, diventava, allora, il nascondimento sicuro di tanta audacia. Fazzoletto, “permanente” obbligatoria, aggiuntiva, quella sì, ma solo tra le mura domestiche.
Gli anziani, custodi severi della tradizione e del rigore, mai avrebbero sopportato che le fatiche di una briciola di pollaio; cesti di frutti silvestri, erbe medicinali e culinarie, raccolte durante impegnativi alpeggi di gioventù anelante al nuovo incombente… potessero farsi ricciolo capriccioso, effimero, vago.

Attilio Carboni

(Articolo tratto dal N° 4 del 1/02/2018 del settimanale “la Trebbia”)

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