La ripresa partigiana nella val Trebbia.
Per quanto non si possa stabilire in proposito una data precisa, la riorganizzazione di tutte le forze partigiane della bassa e media val Trebbia e la loro nuova partecipazione alla lotta accanto all’indomita VII^ brigata, la quale, come si è detto, mai aveva abbandonato la guerriglia e per la quale il termine «ripresa» non ha significato, si può far risalire alla prima decade del febbraio 1945. Essa coincide con la riunione che in quel periodo Fausto tenne a Pecorara, con tutti i comandanti delle brigate dipendenti. Pur nello sconforto di una situazione tragica mai era venuta meno durante i lunghi mesi del rastrellamento la speranza di tempi migliori. Il ricordo dei compagni caduti, quello dei patimenti sofferti nel crudissimo inverno, le atrocità commesse dai nemici e la consapevolezza degli ideali per i quali si era combattuto, non disgiunta da un certo desiderio di rivincita, tutti questi motivi influirono sull’animo dei partigiani sbandati e valsero a far loro ritrovare la volontà di ritornare nei ranghi per riprendere la lotta.
Furono perciò dissotterrate e riprese le armi deposte, ristabiliti i collegamenti, rintracciati gli sbandati e ricostituiti i nuclei. Questi non erano ancora le brigate di prima del rastrellamento, ma erano già qualche cosa dopo tanto squallore. Erano il sintomo della ripresa, il ridestarsi dall’inerzia e dall’immobilità, la ribellione cosciente alla perenne minaccia nemica. E un nuovo giuramento prorompeva dai petti dei singoli, che vincevano così egoismo, fiacchezza e paura.
Attorno a questi primi nuclei di più coraggiosi e di più decisi, andranno raccogliendosi col procedere della riorganizzazione e con l’intensificarsi delle azioni di guerra, anche i dubbiosi e i più prudenti, che affluendo nei reparti daranno loro la nuova consistenza numerica di brigata.
A Pecorara trovai Fausto del tutto cambiato da quello che avevo visto per l’ultima volta a Perino. Ormai ristabilito nel fisico era tornato allegro, sicuro di sé e desideroso più che mai di rivincita e di chiudere alfine la partita aperta col nemico. Rivolse un pensiero commosso a quanti erano caduti sotto il piombo avversario o erano stati troncati dagli stenti e dal freddo e si dimostrò particolarmente addolorato per la fucilazione del comandante Paolo. Questa era avvenuta da poco, il 7 febbraio, al Cimitero di Piacenza. Tralascio di descriverla perché già altri, e più degnamente, lo hanno fatto nei loro scritti, soprattutto quel bravo cappellano militare, don Giuseppe Bonomini, che ebbe ad assistere Paolo e ne raccolse le ultime parole. Mi limiterò soltanto a ripetere la frase che al ritorno dell’esecuzione pronunciò il maresciallo dell’ufficio politico del nemico: «E’ un peccato fucilare uomini di carattere come Paolo, che muore al grido di viva l’Italia», perché essa sola basta a esaltare l’uomo oltre che il patriota e l’eroe.
Nel convegno di Pecorara, Fausto ebbe parole di grande lode per la VII brigata, additandone il comportamento come raro esempio di dedizione al dovere, ed ascoltò con interesse le relazioni di tutti i comandanti. Quindi, dopo aver preso in esame la nuova situazione, diede a ciascuno di noi le disposizioni necessarie per affrontarla. Per la val Trebbia esse erano le seguenti: la parte alta della valle era stata ripresa dai garibaldini della divisione «Cichero»; a Marsaglia dominavano i partigiani di Salami, la parte media e bassa, da Bobbio a Rivergaro, era invece ancora in possesso del nemico che la presidiava con forze cospicue. Contro queste si doveva ora operare e i patrioti non mancarono alla nuova caccia.
Nel frattempo, in Bobbio, al presidio dei bersaglieri si era alternato quello del battaglione «Nettuno» di S.S. italiane, comandato dal magg. Remo Boldrini, ma controllato da ufficiali tedeschi. Da parte della VII brigata venne perciò intensificato il servizio di pattuglia e si accrebbe il ritmo degli attacchi ai convogli avversari. La stessa città venne chiusa entro una morsa di ferro dalla quale era difficile poter uscire senza amare sorprese.
Proprio in questo periodo di tempo, mentre ritornavo con una pattuglia di alpini da Ceci, riuscivo a sorprendere una macchina delle S.S., che dal Passo Penice scendeva a Bobbio. Il fatto avvenne in località Campore, a 3 chilometri circa dalla città. L’automezzo sbucò improvviso da una curva mentre noi stavamo attraversando la strada. A bordo si trovavano due sacerdoti di Bobbio, il magg. Boldrini ed un milite che fungeva da autista. Ritornavano da un colloquio avuto al Penice col cap. Giovanni in merito ad uno scambio di prigionieri. Siccome la macchina era sprovvista del regolare contrassegno e noi eravamo all’oscuro di tutto, certo non potevamo pensare che si trattasse di parlamentari. Perciò ordinai al mitragliere Pedralli di piazzare la sua arma e seguito da Barba 1° mi portai subito al centro della strada per intimare la resa. L’automezzo si arrestò di colpo e ne scesero emozionatissimi i due sacerdoti seguiti dal magg. Boldrini, che ostentava una calma un po’ troppo forzata. Alla vista dei due prelati feci abbassare le armi, andai incontro all’ufficiale nemico e mi presentai. Seppi in tal modo il motivo del viaggio al Penice, confermato d’altra parte anche dagli altri. Il maggiore mi disse di avermi subito riconosciuto, e con aria insolente si dolse del fatto che i partigiani tendessero simili imboscate proprio a lui, così incline ed abituato a «combattere a viso aperto».
Con ciò voleva accusarci di viltà o quanto meno di mancanza di senso cavalleresco. L’avrà più tardi, a Monticelo, il combattimento a viso aperto, quando, approfittando della nostra scarsità numerica ci verrà ad attaccare con forze dieci volte più grandi e subirà una memorabile sconfitta. Lo feci perciò risalire in macchina e senza aggiungere parola gli accennai che lo lasciavo libero di proseguire.
Per tutto il resto del mese (febbraio) venivano intensificati gli attacchi, diurni e notturni, contro il presidio di Bobbio e contro il suo traffico lungo la strada del Penice e di Piacenza. Ormai il cerchio partigiano andava sempre più stringendosi attorno alle S.S., senza più lasciare alcuna tregua al nemico, smorzandone l’ardore combattivo, facendolo vivere in una continua atmosfera di tensione e di incubo. I nemici faranno ancora qualche puntata offensiva per tenerci lontano, ma ciò denoterà più che altro il loro terrore e la loro fiacchezza.
Le mie stesse frequenti visite in città li faranno stare in allarme continuo nel timore dell’attacco decisivo. Entravo in Bobbio in qualsiasi ora del giorno e anche talvolta vi pernottavo, ospitato dalla coraggiosa madre del partigiano Mix. Le mie incursioni non erano senza frutto, perché oltre ad assumere informazioni, riuscivo a sottrarre armi e munizioni, e a catturare qualche prigioniero, come quel milite prelevato dinanzi al portone del Castello Malaspina, che era diventato la roccaforte del nemico. Tutto questo, unito all’ansia di un domani sempre più incerto e alla constatazione di non poter più far fronte ad una situazione sempre più critica, infiacchì l’avversario e gli fece prendere la decisione di evacuare la città.
Italo Londei
(Articolo tratto dal N° 8 del 03/03/2022 del settimanale “La Trebbia”)
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