Addio all’attore bobbiese Gianni Schicchi

L’attore bobbiese Gianni Schicchi è morto martedì 8 novembre all’età di 84 anni. Il suo era un nome d’arte: l’appellativo venne fuori nel 1970, durante le riprese del film “Nel nome del padre”. L’associazione con l’opera comica di Puccini fu un marchio che gli durò tutta la vita, anche se all’anagrafe, nei registri del 1938, era Giovanni Gabrieli.

L’esordio nel cinema risale al 1965 con “I pugni in tasca” di Marco Bellocchio, regista per cui lavora anche ne “La Cina è vicina” (1967), “Marcia Trionfale” (1976), “Nel nome del Padre” (1972), “Vacanze in Val Trebbia” (1978), “Le Sorelle” (1999), “Ofelia” (2000), “L’ora di religione” (2001), “Sorelle” (2006).

https://www.liberta.it/ (08/11/2022)

Ritratto di Gianni Schicchi

Gianni Schicchi, ricordo la sua faccia da cinema che riconoscesti tra mille. Ispira simpatia e tenerezza soprattutto quando ti assale con la sua voglia infinita di spiegarti il mondo che poi è il suo mondo, un pianeta che per il regista Marco Bellocchio ha rivestito un ruolo importante, di primo piano. Ci siamo frequentati per diversi anni.

I ricordi si tingono d’azzurro, il colore della lontananza e Schicchi appartiene alla memoria, mia e di tanti. Sergio Castellitto – commentava lo stesso Schicchi – quando furono concluse le riprese di L’ora di religione disse a Marco che sono un artista vero”.

Quest’uomo che di cognome fa Gabrieli, il cui padre è morto quando aveva soltanto sei anni (“C’era la guerra, me lo ammazzarono davanti agli occhi, non dimenticherò più quell’attimo”) sa essere sensibile e amabile. Racconta storie lontane e aneddoti di ieri legati all’amico Marco. I capelli sono bianchi e increspati dal tempo e dal vento di tramontana che ogni tanto a Bobbio spira fortissimo, quasi a farti capire che di là del fiume è Liguria.

Di qua è Emilia o Lombardia, dipende da come ti senti dentro. Sapeva essere coinvolgente, ti travolgeva e poi ti avvolgeva. Scorrevano le riprese di Sorelle Mai mentre Schicchi, uomo in frac, si lasciava morire nelle acque del Trebbia. E ancora: Vincere, Sangue del mio sangue, Buongiorno, notte, Fai bei sogni.

Parlare e conversare con Gianni ha significato per diversi anni ripercorrere i luoghi del film; un esercizio di memoria per entrambi: la curva del Castelletto è ancora lì e fa un certo effetto vedere il fiume Trebbia che si apre in due mentre dall’alto viene fuori, incastonato tra il verde e le rocce, l’antico borgo medievale di Brugnello. Un paesaggio che inquieta e affascina.

E poi il cimitero, l’avello della famiglia Bellocchio, il borgo antico, la casa materna che incroci andando verso Passo Penice. Luoghi, storie, memoria, vita. Un film, I pugni in tasca in cui interpreta il ruolo del venditore di cincillà, che è uno spezzone di vita, il percorso una giovinezza inventata, di un’adolescenza inquieta, come tutte. Violata e poi svelata.

In quei luoghi di Bobbio in cui ha guidato alla ricerca della Valtrebbia perduta, Sergio Rubini, Franco Piavoli e Daniele Ciprì, ci sono i riti di famiglia agiate, borghesi, i cui segni di decadenza sono irreversibili. I pranzi della domenica nei Pugni in tasca sono uno sberleffo continuo; come la lettura del giornale alla madre cieca, alla quale Ale si presta con condiscendenza e cinismo tra ironia fredda e corrosiva.

Bobbio nei Pugni è una morsa; non ti puoi liberare: “Quando Ale getta la madre nel burrone – diceva Schicchi – la scena viene condotta con leggerezza, sempre, quasi si trattasse di un gioco. Quella carezza sulla spalla è una spinta devastante e inopportuna; hai la certezza dell’incesto tra Ale e Giulia quando il gatto esce dalla stanza della casa dell’antica contrada”.

“Il rapporto che Marco ha con me è sincero, profondo e vero. Ci conosciamo da una vita. Che so, anni Cinquanta. Ricordo il profumo dell’ erba, i bagni al fiume quando eravamo ragazzini e le biciclette che ci lasciava apiedi quando la camera d’aria usciva dal copertone. E poi Bobbio e le suggestioni del paese. Io figlio di gente alla buona, con scarse o nulle possibilità economiche e Marco che arrivava in estate insieme ai genitori e ai fratelli. Famiglia alto borghese e ottime possibilità”.

Proprio come la famiglia agiata di provincia che viene fuori da I pugni in tasca: “Quel film è ancora dentro di me. E credo che abbia segnato l’intera comunità di Bobbio perché quei giorni freddi con la neve per strada sono ancora fissi nella mia mente. Marco aveva in testa una cosa strana, un film che era come una locomotiva lanciata contro il perbenismo, contro certi modi di fare della borghesia. Gli spazi chiusi, angoscianti dove vivono i componenti di una famiglia senza pace. Una stessa famiglia malsana e autodistruttrice”.

Mi disse: “Andammo a Locarno. C’erano Marco, il sottoscritto, Enzo Doria, Gisella Longo, Marino Masé, Paola Pitagora, Celestina e Camillo Bellocchio, Ugo Novello, Alberto Marrana, Lou Castel, Cocco Molinari e Giacomo Ciavatta. Il film fu relegato all’ultimo giorno. In sala quasi tutti se n’erano andati. Tutti tranne un critico inglese che esaltò il lavoro di Bellocchio. Ne scrisse benissimo. E Italo Pietra allora direttore de Il Giorno telefonò al caposervizio degli spettacoli chiedendoli perché nessuno del suo giornale aveva intuito ciò che il film rappresentava”.

Penso a quando mi portò a casa sua e tirò fuori una vecchia copia ingiallita, la mostrò con soddisfazione. E ciò che il critico Pietrino Bianchi scrisse: “Cupo, arido, percorso da una vena di lucida alienazione, I pugni in tasca è il film di un regista che non ha freddo agli occhi e che ama le vie inconsuete del cinema.

Viene da sorridere pensando alla rivoluzione al marzapane proposta da Chi lavora è perduto. Ne I pugni in tasca si ritrovano, in un contesto narrativo senza remissioni, i temi e i veleni dei surrealisti, e il fatale «changer la vie» da cui deriva gran parte della cultura moderna.

Per le sue origini culturali, il regista ha raggiunto il grido dei postromantici non attraverso Rimbaud e Lautréamont; ma, più caratteristicamente, seguendo i canali del grande pessimismo cristiano, da Tertulliano a Sant’Agostino. L’organica fragilità dell’umana natura è sempre presente al Bellocchio”.

Gianni, è un feticcio che sa di vita, di magia, una maschera di strada che ricorda certe notti in cui la luna confonde, in Valtrebbia, a Bobbio, ricordi e desideri, tempo andato e gioventù, maturità e nostalgia. Bobbio, una borgata che adoro e che ogni tanto mi riporta a te, amico mio.

Mauro Molinaroli

https://www.piacenzasera.it/(02/04/2019)

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