L’arrivo dei Mongoli della divisione Turkestan

Invio alla Redazione del giornale La Trebbia alcune pagine del diario che mio fratello Vittorio Leonida, allora quindicenne, scrisse in occasione dell ‘occupazione dei Mongoli nel 1944. I fatti interessano la Città di Bobbio e, soprattutto, la frazione di Vaccarezza. Ringrazio cortesemente per l’attenzione.
Maria Pia Leonida

7 luglio 1944
La città di Bobbio e la sua valle sono liberate dai partigiani con grande gioia degli abitanti, specie di quelli che vivevano in clandestinità. Si ritrovano dopo anni e riprendono le attività e il lavoro di sempre.
La libertà si respira!
26 agosto 1944
La divisione Turkestan, ben armata ed equipaggiata, sferra un’offensiva senza pari contro la repubblica partigiana in tutte le valli – Trebbia, Tidone e Staffora – con l’intento di vincere la resistenza partigiana. Nel pomeriggio raggiunge l’albergo Buscaglia del passo Penice. Ai nostri occhi che scrutano il passo appare il triste spettacolo delle mura avvolte in una nuvola di fumo, seguita da un boato inatteso.
I mongoli avevano trovato i resti del bivacco dei partigiani e si stavano vendicando demolendo il fabbricato.
Gli abitanti di Carossa si riuniscono davanti alla casa alta e attendono gli eventi con il cuore che batte forte per la paura. Alle loro orecchie giunge il rumore della colonna proveniente dalla strada provinciale distante trecento metri. Notano che tre uomini lasciano la colonna e si dirigono verso di loro. È il momento più temuto. I soldati si avvicinano guardinghi e, al cenno di saluto dei presenti, rispondono in perfetto italiano: “Siete i primi civili che incontriamo, non abbiate paura, nessuno vi farà visita, nessuno vi disturberà”. Tutti ringraziano e rientrano nelle loro case. I soldati pernottano a Vaccarezza, nelle due ville del Poggio, nella casa del Campà e presso l’osteria. Gli abitanti erano fuggiti, gli uomini renitenti alla chiamata alle armi della repubblica di Salò avevano scavato nella roccia un vano nel quale nascondere il loro corpo e intanarsi come volpi.
I mongoli rubano tutto quello che trovano e devastano le cose non trasportabili. Carossa, invece, rimane indenne.
27 agosto 1944
La truppa, il mattino presto, lascia il luogo del bivacco diretta a Bobbio, dove interrompe il governo partigiano della città. Dal Penice in avanti i partigiani non accennano alla resistenza: il terreno è sfavorevole per un attacco e le truppe avversarie sono di gran lunga superiori per numero e per armamenti.
Mi sveglio più tardi del solito. Affacciandomi al Belvedere vedo degli oggetti abbandonati nel prato oltre la strada provinciale. Mi avvicino e trovo una vecchia radio a galena, un paio di sci e un cappotto. La radio funziona, ma riesco a sentire solo qualche stazione sottoposta a censura dal regime. Non posso certo ascoltare radio Londra!
Inverno 1944
In una notte gelida accadono fatti imprevisti e pericolosi per gli abitanti di Vaccarezza.
Una coltre di neve di notevole spessore copre ogni cosa e impedisce alla notte senza luna di essere particolarmente buia.
Sono le ventitré e Carossa è immersa nella quiete più assoluta. Ai piani superiori tutti dormono. Al piano terra un’anziana donna e la figlia sono sedute attorno alla stufa a legna e fanno la calza per il loro figlio e fratello che si era dato alla macchia, nascosto in qualche fienile a Cadelmonte o ai Boschini, località fuori dal raggio di azione dei fascisti. Lo sferruzzare veloce iniziale rallenta piano piano fino a fermarsi del tutto. La testa comincia a inclinarsi da una parte, il corpo la segue, ma le donne si svegliano e riprendono meccanicamente il lavoro.
Nella casa alta, suddivisa equamente tra due famiglie, ai piani superiori dormivano, al piano terra io ripetevo a memoria il XV canto dell’Inferno della Divina Commedia perché volevo vincere la scommessa con mio fratello Pino.
La porta, non chiusa a chiave, improvvisamente si spalanca ed entrano due soldati mongoli della divisione Turkestan, in assetto di guerra. Puntano il fucile verso di me e mi fanno capire che devo andare con loro.
Anche Pio. che abita a cento metri di distanza, viene preso e deve stare con noi: non fa alcuna obiezione, capisce subito che ci aspetta una notte di avventure. Lui è sempre pronto, è pane per i suoi denti.
Pio era conosciuto da tutti, era un atleta, un acrobata. Davanti a una platea plaudente saliva con i piedi sulla sella della bicicletta in posizione eretta, percorreva un tratto di discesa davanti all’osteria, quindi ripren­deva il controllo del mezzo con una naturalezza sorprendente.
I due mongoli raggiungono la grande stalla e mi obbligano ad aggiogare due vitelli. Questi animali non erano mai stati aggiogati perché troppo giovani ma, forse consapevoli del momento terribile o per la paura di quei brutti ceffi, si lasciano aggiogare, attaccare alla slitta e seguono i loro conducenti come agnellini. La meta sono le scuderie del marchese.
Caricano molte scatole contenenti munizioni, quindi la comitiva si dirige verso Bobbio. Si devono percorrere sette chilometri in discesa all’andata e altrettanti in salita al ritorno, sempre, se ci sarà un ritorno…
Alla testa ci sono io con i manzi, seguito da un soldato e da Pio con l’altro paio di manzi; un mongolo è in coda. Le slitte scivolano sulla neve, le alte sponde impediscono di sbagliare strada. Dopo La Valle danno l’ordine di fermarsi. Non capisco il perché di questa sosta e ne chiedo la ragione.
Il soldato rimasto di guardia mi risponde: “Una carabina kaput”. L’altro soldato torna indietro, con la speranza di trovare il fucile. Non ho l’orologio, stimo che siano le tre della notte. Il freddo ghiaccia la neve che lo spartineve ha spinto ai due lati della strada formando muri compatti e alti.
Chi poteva aver trafugato il fucile se non Pio? Poteva forse essere caduto dalla slitta sulla quale era stato adagiato?
Voglio sapere tutto da Pio, anche i particolari, certo che sia stato lui ad averlo sottratto. Perciò mi avvicino, fingo di parlare del freddo e del brutto tempo. Pio mi sussurra il luogo in cui l’ha gettato, nella curva a monte della Valle. –
I nostri piedi sono indolenziti, il campanile di Santa Maria batte le quattro, quando finalmente ci raggiunge il secondo soldato a mani vuote. I mongoli parlano tra di loro concitatamente, poi ordinano di riprendere il cammino.
Entrano in città dal lato di Porta Nuova, passano per la via principale buia e deserta, svoltano a destra nella piazza del Duomo. Nella curva prima del municipio viene ordinato l’alt. Un tempo il locale era la bottega di un parrucchiere, ora è adibito a deposito di munizioni. Altri militari si accingono a scaricare la slitta, mentre io studio il modo di fuggire: i due manzi possono esaudire il mio desiderio se, tolta l’ultima cassetta di munizioni, riesco a spronarli. Infatti… secondo le previsioni, i manzi partono al galoppo, li seguo fingendo di volerli fermare, ma imperterriti continuano a fuggire. Si fermano in periferia in una strada comunale, una scorciatoia di quella provinciale. I manzi sono a Bobbio per la prima volta, attraversano la strada che avevano percorso all’andata, scegliendo la scorciatoia. Qui non è passato lo spartineve perciò faticano non poco; in una curva il vento ha accumulato la neve ed è necessario liberarli del giogo.
Finalmente arrivo a casa: ad attendermi mia mamma con una scodella di latte appena munto e pane bianco. Mio padre Nino conduce i manzi a Cadelmonte, in una stalla messa a disposizione da un lontano parente ove già si trovano le altre due paia di buoi.
Ritorno poi sulla provinciale e mi dirigo nel punto in cui Pio aveva detto di aver gettato il fucile. Guardo oltre il muro di neve, il fucile è a terra, luccicante ai primi raggi del sole. Prima di impadronirmene voglio esplorare oltre la curva per evitare brutti incontri.
No, non è un brutto incontro, che gioia… vedo arrivare Pio, fuggito anche lui da Bobbio, che torna qui a recuperare il fucile. La strada è deserta, solo noi due con l’arma caricata con cinque cartucce, anche queste trafugate la stessa notte, ci dirigiamo a Vaccarezza. Arriviamo a Cogni, un uomo percorre il sentiero che funge da scorciatoia della provinciale, gesticola e corre verso di noi. Pio riconosce il mezzadro del podere in cui era stato portato durante la notte. Con voce alterata ci supplica di tornare: i mongoli hanno preso in ostaggio la sua famiglia e la fucileranno se noi non torniamo. Spaventati e timorosi, andiamo dai nostri familiari che ci indirizzano al prete, Don Agostino, persona erudita e disponibile a impegnarsi per il bene dei suoi parrocchiani. Egli, resosi conto del problema, ci conduce dal comandante di zona con sede nel palazzo del marchese, a cento metri di distanza. È un ufficiale superiore della Wehrmacht, non capisce l’italiano e non abbiamo un interprete. Gesticolando spieghiamo l’accaduto, tacendo, naturalmente, l’episodio del fucile. L’alto ufficiale scrive un biglietto e ce lo consegna.
Quando torniamo alla fattoria il mezzadro rimane in silenzio, pensa ai suoi familiari in ostaggio, lo e Pio abbiamo paura. Consegniamo il “papir” al mezzadro e attendiamo la sentenza alla distanza di un centinaio di metri. Quel foglio di carta con scritte poche parole in tedesco hanno fatto il miracolo: siamo liberi!
In questi momenti, tra la vita e la morte corre un debole filo che può rompersi inaspettatamente.
Rimane irrisolto il problema dei manzi che i mongoli hanno trattenuto. Antonio, il proprietario, va dai mongoli, rimane tre giorni con loro e poi li riconduce a casa.

Vittorio Leonida

(Articolo tratto dal N° 3 del 16/01/2014 e dal N° 4 del 23/01/2014 del settimanale “La Trebbia”)

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