Alla scoperta della Val Boreca, isola nel verde mare del nostro Appennino

IL GRAN CANYON DELLA VAL BORECA

Il torrente Boreca scorre tra i fianchi dei monti Lesima (m. 1723) ed Alfeo (m. 1650), in alta Val Trebbia piacentina. La convalle è stata modellata dal suo torrente con impegno molto creativo e l’Alfeo appare in fiera solitudine sulla sponda sinistra della Trebbia. La val Boreca si è configurata mediante forti sinuosità e sofferenze che ne integrano aspetti selvaggi e spettacolari, come appare in diversi suoi punti, con rocce aggettanti e spaventosi abissi. Il Boreca non è il Colorado in California (ovviamente), ma in miniatura si possono constatare somiglianze. Come in America nel Gran Canyon, tra i Comuni piacentini di Ottone e Zerba si spalanca alla vista il gran libro del sottosuolo. Sfogliarlo sarà sorpresa e meraviglia ad ogni pagina.

LA VAL BORECA E LE PIRAMIDI D’EGITTO

Il riferimento alle piramidi d’Egitto in Val Boreca è in relazione a numero e uso sapiente delle pietre messo in campo dai nostri antenati per terrazzare i fianchi di Alfeo e Lesima, trasformandoli in specie di piramidi (a gradoni o fasce). Sono stati utilizzati milioni di massi in circa mille anni di indicibili sacrifici. Muraglie infinite caratterizzano il paesaggio: muri costruiti sulle linee di livello, congiungono tutti i punti della stessa altitudine (isoipse), ad intervalli regolari, con tecniche sofisticatissime e grandi virtuosismi. Muri espressione del principio: “perfettamente paralleli tra loro; perfette fasce parallele di pietre squadrate con arte, dentro di loro”. Stupende muraglie, dunque, che assecondando l’andamento del monte, aderiscono al suo profilo con morbide delicate sinuosità, degne del miglior barocco. Il pugno d’erba strappato alle fasce, il Campetto di grano… non arricchivano di certo, ma erano indispensabili alla sopravvivenza del nucleo familiare. Nella vecchia Europa, un detto troppo spesso sperimentato, ovunque diffuso, ricordava: “in inverno mal mi penso, d’estate ben mi vedo”. E ciò valeva in particolare per la nostra montagna dove “panni e pani non erano mai sufficienti”. Dove la nostra gente, spesso, poteva disporre soltanto di zappa e vanga per dissodare la terra e predisporla alle seminagioni. Non tutte le terrazze, infatti, consentivano l’accesso al bue, con l’aratro e l’erpice. Non tutti i contadini potevano mantenere una coppia di buoi. Disagio e malessere così verbalmente rappresentato: “Sarebbe meglio poter dire “va là” (rivolto ai buoi aggiogati per l’aratura), piuttosto che “ahimè!”, lamentato senza alternative dal povero solitario zappatore”. Oggi, purtroppo, l’abbandono della montagna e il suo spopolamento, ormai giunto al massimo grado, non consente manutenzioni; cure, e riguardi di un tempo. Incipienti “smagliature” ai muri di sostegno, compromettono la consistenza di quelle opere ciclopiche; ne preannunciano un futuro precario e incerto. Peccato!

I PAESI DELLA VAL BORECA

Grappoli di case in alta valle. Isole negli infiniti verdi di selve lussureggianti. Faggi secolari intrecciano rami; formano cortine, sostengono cupole. Mulattiere, strade, sentieri nei dintorni dei borghi restano avvolti da magiche soffuse penombre gran parte dell’anno. Nelle radure appare il cinghiale dalla curiosa zanna a sciabola; saltano cerbiatti e corrono daini veloci. L’erba dei prati, verdissima e folta, è decorata da fiori vivaci e vari. I colori sono intensi; acuti gli aromi. Ronzano le api; s’acquatta la lepre nel solco; volge le spalle il fagiano: colorato, bellissimo (indifferente). Le foglie del faggio sono lucide nelle due pagine. Quella superiore è verde intenso, l’altra molto più chiara. Un semplice soffio di vento porta agitazione e scompiglio tra le fronde… Ma quale effetto! La sommità della foresta, compatta ed estesa, diventa, allora, onda spumeggiante; audace, fluttuante, ricorrente. Lo spettatore si sente coinvolto e un po’ “naufrago” in quel vasto, ignoto, mare improvviso. In autunno le foglie si colorano di giallo, arancio, rosso fuoco… La natura del luogo, eccellente pittrice, genera scenari spettacolari, sfondi dal fascino misterioso; suggestioni infinite. In Val Boreca tutto trascende in meraviglia ed incanto.
Le case dei villaggi, dai muri in pietra, angoli squadrati alla perfezione ed eccellente complessivo disegno, parlano del valore degli antenati e della loro impegnativa esistenza. Raccontano fatiche, sfide, prove, oggi inimmaginabili, ma anche grandi vittorie in avverso contesto.
Riverberano fiducia e speranza, forti sentimenti di religiosità e vita. I paesi fioriscono in Chiese dalle mirabili facciate. Campanili e cupole a cipolla continuano ad indicare il Cielo, quale sicuro riferimento agli uomini di quella terra. La gente della valle, fiera ed indomita, è riuscita a sottomettere la “selva selvaggia”, l’ha resa gentile, generosa, accogliente. Forse Palazzeschi si è ispirato a qualche paesino della Val Boreca: Tartago, Pizzonero, Suzzi, Artana, Vesimo, Cerreto, Zerba con il suo castello e agglomerati interessanti e sparsi, Pey, Bogli… quando ha concepito la sua bellissima poesia Rio Bo.

LA VALLE DELLE FARFALLE

Tra il ponte per Tartago e la Diga Enel il Boreca si muove in un lungo arenile, quasi pianeggiante che ne incornicia le sponde. Nella sabbia e nel terriccio del greto prosperano timo e santoreggia, cespugli vigorosi, molto aromatici. Salici flessibili, pioppi, ontani; frassini; carpini e cornioli… bevono; si specchiano, s’intingono, in acque vive, limpide, pure. Numerosi affluenti scendono con impeto da Alfeo e Lesima. Precipitano in bui canaloni, profondi, ripidi, insidiosi, tagliati nella dura roccia dagli attriti dei secoli. In diversi tratti cadono a picco, o quasi. Quelle bellissime cascate di candida spuma tornano puro cristallo solo nei laghetti di fondovalle. In acque, divenute tranquille, regna il gambero; nelle correnti, molto ossigenate, la trota. Un tempo, non troppo lontano, era frequente l’anguilla, in movimento verso faticose sorgenti.
Ovunque si possono fruire musicalità diverse e nuove, in piacevoli, commoventi armonie: cinguettii spensierati nell’aria; squittii, fruscii… Vibrano i rami delle piante; i fiori, le foglie, le erbe del prato, alla brezza genti le; al soffio improvviso e leggero dei venti. Nel passato si aggiungevano suoni di flauto. Il flauto, strumento tanto amato da generazioni di pastorelli in fuga da tedio e durezza di stressanti vigilanze; custodie impegnative di mandrie ed armenti. Echi in concerto scendono e salgono lungo la valle, struggenti segni di entità vaghe, misteriose, lontane. Il Boreca continua a scorrere: rotola, scivola; sussurra. Piange, sorride… Dialoga con chiunque abbia voglia di ascoltarlo attraverso segni, sogni, riverberi; ritmi e poesia. Sollecita il nostro animo verso nuove dimensioni; sviluppi di pensiero profondo, slanci di vita. Ma, talvolta, può diventare violento, non ci sorprenda.
Nelle radure soleggiate densi cespugli di canapa acquatica (pericolosa per l’uomo), ostentano infiorescenze. Sono molto diffusi e rappresentano flora dominante. In agosto si ricoprono di farfalle alla ricerca di riferimenti e nettare. Il genere Atalanta (Vanessa Atalante), la predilige al massimo grado. Passando nelle vicinanze si possono provocare nuvole colorate di ali; timori, tremori, ma allontanandosi tutto ritorna tranquillo. Ogni fuggiasca ha già ripreso il suo posto, solo, forse, un po’ indispettita per il disturbo di un “procurato (inutile), allarme”. In occasione degli accoppiamenti le farfalle lasciano gli steli per il cielo, azzurro, infinito. Surreali “fiori volanti”, numerosi e sparsi, generano uno spettacolo di rara bellezza e meraviglia. Quella parte della val Boreca, nel suo piccolo, imita (bene), la valle delle farfalle nell’isola di Rodi (migliaia e migliaia di turisti, ogni anno, da tutto il mondo).

Attilio Carboni

(Articolo tratto dal N° 5 del 11/02/2016 e dal N° 6 del 18/02/2016 del settimanale “La Trebbia”)

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