Eden sull’Appennino. La valle senza l’uomo è tornata alla Natura

Da più di vent’anni passo un periodo di vacanza in Val Boreca. Non l’avete mai sentita? Non è negli itinerari turistici, non ci sono alberghi o campeggi. Non ci sono residenti, i paesini sono spopolati dagli Anni Settanta perché in inverno sono isolati dalla neve. In estate si ripopolano degli anziani che ci sono nati e dei discendenti che, ogni anno, ritornano nelle case di famiglia.
I boschi di faggi sono stati tagliati durante e subito dopo la guerra e dai ceppi sono cresciuti i polloni, formando boscaglia. Passati quasi settant’anni alcuni polloni sono diventati alberi, gli altri sono caduti. La foresta scomparsa, regredita a boscaglia, ridiventa foresta e, in questi ultimi anni, si è ricostituita una catena alimentare complessa. Sono tornati i grandi erbivori, come i cinghiali, e poi i daini. I predatori rimasti erano giusto volpi e faine, ma ora sono tornati aquile e lupi. Il torrente che dà il nome alla valle ospita diverse specie di anfibi: rane, rospi e salamandre.
I grandi predatori come i lupi e le aquile sono temibili, micidiali, eppure sono i più fragili: sono loro i primi ad andarsene quando l’ambiente soffre. Si chiama degrado trofico: le catene alimentari diventano più corte e semplici. Restano gli animali piccoli e più vicini alla base della piramide alimentare: gli erbivori. Restano anche predatori di piccole dimensioni, di solito rappresentati da molti esemplari. Tanti muoiono di fame, ma qualcuno rimane.
I predatori grandi, invece, sono rappresentati da pochi individui è non è facile che riescano a cavarsela. Ogni individuo è un grande investimento per la specie e se si consuma il capitale perduto è grande.
Le stesse cose avvengono in mare. Paradossalmente gli animali più grandi (come le balene) non sono predatori di animali poco più piccoli di loro. Mangiano plancton di crostacei che, di solito, attinge dai primi livelli trofici e spesso è fatto di erbivori. Possono cavarsela più in fretta i grossi pesci con alti tassi riproduttivi (che fanno tantissime uova e possono ricostituire in breve tempo le loro popolazioni, se le condizioni tornano buone) come i tonni. Gli squali sono più vulnerabili, perché non producono molte uova e la ricostituzione delle popolazioni è più problematica, dopo un tracollo. Lo stesso avviene per i lupi, o per le aquile.
Nella Val Boreca gli uomini sono assenti per gran parte dell’anno. La caccia non è molto praticata e il disturbo antropico è limitato. Le fonti di inquinamento sono nulle. Di notte il cielo permette di vedere stelle e costellazioni che di solito, da altre parti, non si vedono a causa dell’inquinamento luminoso e della scarsa trasparenza dell’aria. L’assenza di grandi impatti ha permesso la ricostituzione (in inglese “upgrade”) delle catene trofiche, dopo il degrado (in inglese “downgrade”).
Cosa ci dice il caso della Val Boreca? Che la natura ha le risorse per tornare in condizioni vicine a quelle originarie, risalenti a quando l’uomo non aveva ancora compromesso la sua struttura e il suo funzionamento. La Val Boreca è a cinquanta chilometri da Genova, eppure è un altro mondo.
Il 19 agosto la nostra specie ha consumato tutte le risorse rinnovabili che, in teoria, dovrebbe consumare nell’arco dell’anno. A partire dal 19 agosto stiamo facendo debiti con la natura, e questa, prima o poi, ci presenterà il conto. In un documento della Nasa si favoleggia la conquista di altri pianeti, una volta che avremo consumato questo. Una follia. Non basta mettere un po’ di persone su un’astronave e portarle su un altro pianeta, in assenza di ecosistemi complessi come quelli che ci permettono di vivere.
Invece dobbiamo imparare qualcosa dalla Val Boreca: se diminuiremo la nostra pressione sul pianeta, la Natura potrà ricostituirsi. Il degrado trofico è reversibile, c’è speranza. La Val Boreca ci insegna che il primo e unico responsabile del degrado è l’uomo. Senza di noi la natura ritorna. Certo, non possiamo andarcene dal Pianeta, ma possiamo cercare modi di vivere che ci permettano di diminuire in modo radicale i nostri impatti. Questa è la sfida se investiremo in tecnologie pulite, basate sul riciclo, sulla non produzione di rifiuti, sulla produzione di energia senza combustione, e su un modo più efficace di produrre cibo, abbiamo qualche possibilità di salvarci…
Già, perché all’apice di tutte le catene alimentari ci siamo noi, oggi. Siamo una specie a rischio, come i grandi predatori. Il nostro successo, misurato dal numeri di individui della specie, è l’anticamera del nostro insuccesso, perché consumiamo troppo rapidamente le risorse che ci sostengono. Dobbiamo mantenere il Pianeta in condizioni compatibili con la nostra esistenza. Se non lo faremo, altre specie prenderanno il nostro posto. Forse meno intelligenti, ma certamente in maggiore armonia con la natura.

Ferdinando Boero (Professore di zoologia – Università del Salento)
Fotografia di Chrystian Licata

(Articolo tratto dal quotidiano “La Stampa” del 25 agosto 2014)

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