C’era una volta Fontanigorda

Il nove agosto 1973 il nostro settimanale dedicava un intero numero al comune di Fontanigorda, riportando notizie storiche, turistiche, economiche, di cronaca. Gli articoli, precisi e dettagliati nelle descrizioni di ambienti e personaggi, dipingevano un paese vivo, laborioso, straordinariamente bello. In armonia con la sua cornice naturale, tanto da far scrivere al redattore nel grande titolo di testa: “Fontanigorda, la Svizzera della Liguria“.
A distanza di trentasette anni, mi piacerebbe far rivivere nella memoria e, se mai fosse possibile, far rinascere quel paradiso. Un’oasi di pace e serenità fra monti e ombrose fronde, che per tanti anni, ha portato prosperità agli abitanti e salute alle persone che trascorrevano le vacanze in quei luoghi.
In prima pagina l’articolo introduttivo così recitava: “Fontanigorda a 820 metri sul livello del mare con 300 abitanti, a 60 km da Genova è una delle primarie stazioni climatiche montane della provincia di Genova. Da Fontanigorda, sede di comune, dipendono le frazioni di Casoni e Canale, che hanno ottime prospettive turistiche… Prese il nome dalle abbondanti, freschissime fonti che pullulano ovunque“.
In verità l’origine del nome racchiude la vera anima del mio paese. Dalle notizie storiche pubblicate, troviamo che la sua prima forma, negli antichi documenti scritti in latino, è Fontis Voracis. Due genitivi che accompagnano un nome, in questo caso, il popolo, la villa della Fonte Vorace. Per il primo termine è chiaro il riferimento alla ricchezza di sorgenti e fonti che affiorano dalla nostra terra; mentre il secondo sembrerebbe contrastare con quanto afferma il primo. L’articolista azzarda l’ipotesi che la voracità stia a indicare la capacità delle nostre montagne di “ingoiare velocemente l’abbondanza delle acque e di restituirle filtrate, limpide e fresche “. Io credo che l’antitesi sia servita a creare un’immagine ancor più esplicita di una realtà non comune. Nel settecento e anche prima, in qualche documento, si trova: Fontis Voracis e Fontis ingurdae. Certamente, sostiene l’articolista, il passaggio dalla lingua ufficiale latina alla dialettale, ha reso più facile il secondo termine a differenza del primo e ciò è confermato dal fatto che nei primi registri scritti in lingua italiana il nome fu tradotto con Fontana Ingorda. Arrivando ai primi del novecento il nome è scritto con un’unica parola: Fontaningorda o Fontanigorda.
Qualche decennio più tardi, assumerà la veste ufficiale di Fontanigorda.
Nel 1891 il Cav. Ferro, con una felice intuizione, aveva donato al paese cinque fontane in ghisa e, su ognuna, aveva fatto rappresentare in rilievo l’immagine della Madonna “Mater Dolorosa “, patrona della parrocchia. Negli anni seguenti le amministrazioni comunali, proseguendo nell’iniziativa, ne aggiungono altre fino a raggiungere il numero complessivo di quindici, quasi tutte con una nicchia che racchiude l’effigie della Vergine. Fontane d’acqua gelida, impossibile immergervi le mani per più di alcuni secondi, e perenne: nessuna fontana è dotata di sistema di chiusura o interruzione del flusso.
Sono l’anima del mio paese, la più importante attrazione turistica, nella certezza di un’acqua salu­tare, quasi miracolosa. Per spiegarne l’incredibile abbondanza sono nate diverse leggende: si narra di un lago sotterraneo che alimenta le sorgenti, nes­suno ha mai potuto vederlo, ma persone anziane che conoscono bene le montagne raccontano di aver lanciato sassi attraverso una fenditura nel terreno e di aver sentito, dopo alcuni secondi, amplificato da un vuoto, il tonfo di un grave dentro l’acqua. Qualcuno ha azzardato l’ipotesi che le acque dei ghiacciai delle Alpi possano, con un sistema naturale di vasi comunicanti, attraversare la pianura e raggiungere una conca sotterranea che si troverebbe all’interno delle nostre montagne. Solo leggende metropolitane? Se fossi una speleologa e possedessi gli strumenti scientifici adatti, immediatamente eseguirei una verifica. Mi piacerebbe che questa idea fosse sviluppata e che il mio comune, con l’aiuto della provincia di Genova e dell’università, si facesse promotore di un progetto di ricerca. Se queste leggende nascondono una verità, gli sviluppi potrebbero essere interessanti.
Per l’economia dei nostri paesi e per l’arricchimento conoscitivo di cui si gioverebbe il sistema idrogeologico del nostro Appennino. Sogni non realizzabili? Può darsi, ma cosa propone oggi la politica per arrestare il processo di spopolamento e impoverimento della mon­tagna, per dare un futuro alla nostra gioventù o per conservare un substrato economico che giorno dopo giorno si fa più sottile e consunto?
Le notizie storiche di Fontanigorda non sono molte, ma sufficienti a dare un’idea dell’evoluzione del paese. Fontanigorda, già feudo dei Malaspina, passò ai Fieschi e successivamente ai Doria.
Nel 1797 guadagnò l’autonomia da Casanova di cui era Frazione e si costituì parrocchia autonoma.
Documenti più antichi testimoniano dell’esistenza e della consistenza di questo paese fin dal 1607.
E’ di questi anni la concessione dei marchesi Doria agli abitanti di Fontanigorda, di tagliare il faggio per fabbricare utensili di legno. Forse, da quest’attività, per la dimestichezza che gli uomini avevano con le foreste di faggio, nacque l’importante e caratteristica industria dell’esca.
L’esca proviene dalla lunga lavorazione del fungo legnoso del faggio ed era utilizzata in passato per uso chirurgico come emostatico, e per uso combustibile.
Per la raccolta del fungo, le squadre di raccoglitori, dopo aver battuto, nei secoli passati, le folte faggete che coprivano i monti sovrastanti, dal Dego al Fregarolo, si spostarono lungo la catena dell’Appennino tosco-emiliano, fino ai monti dell’Abruzzo e infine nella Sila in Calabria. Altre provviste di materia prima per l’industria dell’esca erano inviate a Fontanigorda dalla Dalmazia e a Genova, dove la ditta “Biggi” aveva impiantato un laboratorio; a Ferrara e Ravenna, dove aveva succursali la ditta “Ferretti” e a Marsiglia, dove la ditta “Garbarmi” aveva fabbriche e spacci.
La manodopera partiva tutta da Fontanigorda. Il processo di lavorazione era lungo e faticoso, con trattamenti chimici del fungo e pazienti battiture affidate in buona parte alle donne. Dal fungo legnoso uscivano le pezze di esca morbida come velluto, pronte per la spedizione. I mercati erano la Germania, la Svizzera e l’Inghilterra.
Tra le due guerre mondiali, probabilmente per esaurimento della materia prima, l’industria dell’esca si spense.
Già a partire dal 1870, la metà delle famiglie di Fontanigorda, che ai quei tempi contava più di mille abitanti, (oggi circa 300 in tutto il comune) emigrarono in Francia, prima con emigrazione stagionale e poi fissa. Formarono dei nuclei di fontanigordesi, tanto forti da imporre il proprio dialetto agli indigeni ed agli emigrati da altre nazioni.
L’industria dell’esca era ancora fiorente alla fine dell’800, quando già stava nascendo a Fontanigorda una nuova industria: quella turistica. I fontanigordesi, guidati da forestieri venuti da Genova quali i Baghino, Ferro, Bixio, Ghiotto, furono geniali e lungimiranti nel saper sfruttare le risorse della loro povera, quanto bella montagna.
Ancora si viaggiava con la diligenza a cavallo e, da Genova, alla fine del 800, già salivano. a Fontanigorda in villeggiatura, le migliori famiglie della nobiltà genovese: i Durazzo, i Groppallo, i Piaggio, i Serra, accolti dal primo albergo della Valtrebbia. Dedicato anch’esso come la chiesa, a Sant’Antonio e di proprietà della signora Santina era stato iniziato nel 1867.
Seguiranno la costruzione del primo acquedotto (1891), la strada carrozzabile (1885), la costruzione del ponte sul Trebbia (1894), l’impianto di luce elettrica (1913). Eravamo nei tempi in cui questi lavori non erano eseguiti dal regio governo, ma dal sudore e con i soldi della povera gente.
Di lì a poco saranno costruiti altri quattro alberghi, un certo numero di ville immerse nel verde e molti appartamenti da affittare nella stagione estiva; sorgeranno campi da bocce e di calcio nel Bosco delle Fate, campi da tennis e da pallacanestro, cinema, bare negozi fornitissimi.
Cosa resta a distanza di trentasette anni?
Un paese dall’aspetto ridente, ordinato, pulito, immerso nel verde dei suoi castagneti e delle sue faggete. Dall’aria sempre fresca nella canicola estiva e dalle acque gelide e limpide. Il suo parco, con i campi da bocce, da tennis, da calcetto. Le passeggiate per tutti i gusti, corte, lunghe, cortissime, lunghissime. I giochi per i bambini, da quest’anno completamente rinnovati. I negozi, le sagre, le danze, che un tempo ispiravano il poeta Caproni. Ma quante cose sono cambiate.
Le presenze estive calano numericamente di anno in anno, tanto che dei cinque alberghi funzionanti nel 1973 ne rimane uno soltanto e, da tempo nelle case, sono molte le persiane che restano chiuse.
Ed è sempre più difficile inseguire le esigenze di un turismo mordi e fuggi, che vorrebbe godere nell’arco di una sola settimana, di tutti i divertimenti possibili.
La richiesta di case per lunghi periodi è sostenuta da persone anziane ed è a loro che, a mio parere, potremmo rivolgerci attraverso una rete di servizi: dalla spesa, alla casa, alla cura personale. Conosco signore con difficoltà di deambulazione che, durante l’intera estate, non raggiungono il Bosco delle Fate: perché non far partire da Piazza Roma una seggiovia che arrivi, a tappe, fino alle Lungaie, altro luogo ameno ai piedi delle nostre montagne e che potrebbe essere riqualificato?
Tra le innumerevoli passeggiate, quella che porta da Fontanigorda alla Cappelletta di S. Rocco, è certamente una delle più suggestive. Sale verso il borgo di Casoni, aprendo la vista sulle montagne più belle della Valtrebbia. Dapprima, i tetti rossi si mescolano con il verde dei rilievi, ma subito la strada s’immerge nei castagni, ed è all’improvviso che appare, illuminata dal sole, una piccola chiesetta. E’ qui, che ogni anno, il giorno di S. Rocco, si rinnova un’antica celebrazione: al momento dell’omelia, il sacerdote, insieme con i fedeli, s’incammina verso il bosco, recitando il Rosario e cantando lodi alla Madonna. Raggiunta una piccola radura, i pellegrini, seduti sull’erba del prato, ascoltano il racconto della vita e dei miracoli del Santo. L’istintiva sacralità, che aveva permesso ai Celti di concepire la natura come pura espressione del divino, è tuttora presente in questo rito e chi partecipa ha il privilegio di toccare con mano la presenza di quello spirito che ha scelto monti e rovi a sua dimora.
Com’è sorta questa tradizione? Dall’articolo, redatto nel 1973 dal canonico Ferretti sul settimanale “La Trebbia “, apprendiamo che la prima menzione dell’edificio e della devozione a San Rocco, è contenuta in un decreto del Vescovo Antonio Gianelli in data 22 settembre 1843. “Ricordato che il popolo di Fontanigorda, come quello dei paesi vicini, essendo, nell’anno 1836, afflitto per un’epidemia di colera, il morbo asiatico, era andato in pro­cessione al colle detto la Costa e là con il parroco don Giuseppe Raggio, che esortava alla devozione e alla implorazione, aveva chiesto aiuto a Dio, per l’intercessione di S. Rocco, promettendo, i superstiti dal morbo, di andare, ogni anno, il 16 agosto, in devoto pellegrinaggio, volendo ora il medesimo popolo erigere una Cappella in detto luogo, quale monumento della liberazione dal colera, e per potervi celebrare la messa, ne chiedeva i permessi “. Il Vescovo scriveva: “…essendo altissime le ragioni della richiesta… accogliendo volentieri la domanda, concediamo la facoltà di erigere l’oratorio in onore di S Rocco…, e deleghiamo, per la posa della prima pietra, il Rev.do Luigi Brizzolara, Economo della parrocchia”. La cappella ebbe ritardi per la progettazione e ostacoli vari nell’attuazione, così solo nel 1851 poteva essere ultimata all’esterno. L’interno, pur non finito, permetteva la celebrazione delle funzioni e il Parroco ne richiese il permesso al Vescovo, allora Mons. Giuseppe Vaggi che, volentieri, lo concedeva. Da allora iniziò la solenne festa ad onore di San Rocco.
Aiuta a comprendere il voto fatto dal popolo di Fontanigorda, il registro dei morti della Parrocchia, che nel 1836 enumera trentun atti di morte. Di otto è indicata la causa – colera -; nove sono bambini dai due anni ai sei mesi, per i quali il motivo del decesso non è indicato.
Il morbo fece il maggior numero di vittime tra la metà di agosto e la metà di settembre,
complessivamente diciassette morti.
Ci ricorda il canonico che, per lunghi anni, i devoti pellegrini andavano alla Cappella a piedi scalzi, e la strada allora non era quella di oggi.
Perché La Costa, come luogo per la costruzione, si chiede Don Giuseppe e la risposta è oltremodo esplicito. Quello era il valico della strada che da Genova arriva a Fontanigorda. Si pensò che quella fosse stata la via che aveva portato la peste. Affinché il fatto non si ripetesse, si chiese la protezione a San Rocco e lo si pose là, quale sentinella in difesa della Vallata.
Si racconta che, dopo alcuni anni, scoppiata in città un’atra epidemia di colera, a chiunque arrivasse da Genova, si imponeva per precauzione, la quarantena con l’obbligo di rifugiarsi nella Cappella.
Gli abitanti di Fontanigorda hanno mantenuto, nel tempo, questa tradizione. Ogni anno, il 16 agosto, sono numerose le persone che, a piedi, si recano alla cappella: intere famiglie di residenti e villeggianti, con la loro presenza mantengono vivo il ricordo delle guarigioni ottenute dal Santo. Nella certezza che, ancora presente in mezzo a noi, insieme a San Colombano, Sant’Antonio Maria Gianelli, San Pio, Santa Rita e molti altri, preserva la nostra vita da morbi e terribili malattie. Nell’epoca della medicina nucleare, della decodificazione dell’intero patrimonio genetico, della sconfitta del vaiolo e della lebbra, nuovi e insigni studi ci informano dell’aumento progressivo di morti provocate da tumori, da malattie cardio-vascolari, diabete, sia, droga, demenze. E di fronte all’impossibilità d’accesso ad una “vita” resa umiliante e dolorosa da accorgimenti invasivi, cosa propone la scienza? Il nulla: l’eutanasia. L’uomo e la donna, in cui vengono a mancare bellezza, vigore, forza, intelligenza, smettono di essere persone e diventano un peso per la famiglia e la società intera. Ed ecco che i valori umani non trovano più corrispondenza con i valori di Dio, un Dio che della mancanza, del vuoto, ha fatto la ragione stessa dell’amore: l’amore creatore, l’amore che fa scaturire il bene anche dal male. Dove non vi è amore di Dio, ebbe a dire Benedetto XVI, non può esservi amore per l’uomo: così chi dedica la propria vita alla cura di un figlio immobilizzato, incapace persino di mangiare, appare ai moderni sacerdoti mediatici come un privilegiato e la libertà di cura diventa un abuso. Assistiamo al paradosso di vere e proprie sevizie nell’intento di regalare la salute e, quando ciò non è possibile, la morte è l’unico rimedio che pare accettabile. Dimenticandoci che “Solo la preghiera ” può soccorrerci là dove la scienza non sa portare sollievo ai mali del corpo e dell’anima. Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di Santi che ci rendano compassionevoli verso il prossimo e ci sappiano indicare strade dove l’amore sia unica guida alla verità. Perché la pietà non resti soltanto un puro e nobile sentimento, ma diventi azione consapevole in ogni casa, stanza, corsia d’ospedale. E l’altro, specchio del Cristo crocifisso si faccia unica ragione della nostra vita.

Maria Assunta Biggi

(Articoli tratti dai N° 37 del 28/10/2010, 41 del 25/11/2010 e 43 del 09/12/2010  del settimanale “La Trebbia”)

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