Gli “ospedali” partigiani sull’Appennino

La vita partigiana non consentiva molta cura per la salute e per l’igiene personale.
I “ribelli” vivevano, specialmente nel primo periodo, in baite e casoni privi di qualsivoglia impianto igienico, di acqua, di riscaldamento o stufa di sorta.
Un po’ di paglia o di fogliame su cui giacere durante la notte, qualche coperta per difendersi dal freddo, qualche fonte d’acqua che d’inverno non gelasse, un pò di farina, qualche patata, qualche castagna da masticare per ingannare la fame.
Ciò comportava molto spesso malanni ai più cagionevoli, i quali andavano ad aggiungersi a quelli infortunati per incidenti e a coloro che, per via delle scarpe malandate o perchè non ne avevano affatto, si procuravano abrasioni e piaghe alle estremità inferiori.
Con l’avvio delle azioni di guerra, arrivarono, poi, anche i feriti da arma da fuoco.
Ma, in quella situazione, era pressochè impossibile qualsivoglia prestazione sanitaria per mancanza assoluta di medicinali, disinfettanti e attrezzature chirurgiche pur minime, che consentissero anche la terapia più elementare.
La situazione divenne presto preoccupante, anche perchè feriti ed ammalati, restando presso i distaccamenti, costituivano spesso pericolo di diffusione di malattie infettive, oltre che motivo di intralcio ai movimenti operativi.
Per un certo tempo, al bisogno dei medicinali si fece fronte andando a bussare alla porta di qualche medico condotto o facendo ricorso alla buona volontà ed alle gambe delle staffette che, recandosi a Genova, facevano provvista di qualcosa con l’aiuto di Neera (Rita Allemanda), o di Marietta (Angela Berpi), nella farmacia presso la stazione ferroviaria di Cornigliano.
Cosi pure per le cure: ci si rivolgeva ai medici dei paesi, esponendoli però a gravi rischi insieme ai partigiani bisognosi di assistenza, loro pazienti. Per questo, nel giugno ’44, dopo il disarmo e l’allontanamento dei carabinieri da Rovegno, si pensò di utilizzare l’infermeria della colonia elioterapica “Levillä”, ubicata in mezzo alla stupenda pineta soprastante il paese di Rovegno vicina alla frazione di Pietranera, e detto fatto, nel giro di qualche settimana, fu allestito l’ospedale partigiano di zona.
Se ne occupò Vuccio (Silvio Bandinelli), allora giovane studente in medicina, il quale era coadiuvato dal medico di Rovegno dott. Cella, e, successivamente dal dott. Dolo, ufficiale medico della Marina.
A completare l’equipe medica giunse infine Micha (Midchad Sultanov), ottimo medico di nazionalità russa, sfuggito rocambolescamente alla prigionia dei tedeschi. Alla conduzione dell’ospedale collaboravano pure due ragazze, fuggite dalla città per motivi politici, il partigiano Secondo (Morano), che divenne capo-infermiere ed altri partigiani ai quali era stato affidato anche il compito di far pattuglia e di difendere l’ospedale da attacchi nemici improvvisi, oltre che di occuparsi del trasferimento dei ricoverati, quando era necessario in caso di pericolo.
Nell’autunno 1944, nel periodo della permanenza degli alpini a Gorreto, l’ospedale aprì tre succursali, una a Fascia, l’altra a Carrega e la terza, meglio attrezzata delle prime due, a Daglio, per ricoverarvi i partigiani più malandati delle formazioni operanti nelle vicinanze. Noi siamo andati a cercare quest’ultima “succursale” a Daglio in val Borbera, e l’abbiamo trovata. Adesso è una bellissima casa privata, come lo era prima dell’arrivo dei partigiani, ed appartiene alla stessa famiglia di allora con le nuove generazioni che la sfruttano soprattutto nel periodo estivo come seconda casa.

È ed era sicuramente l’abitazione più bella di Daglio sia per la posizione, si possono vedere gli accessi al paese, che per la struttura architettonica, presenti parecchi vani da poter adibire a camere di degenza, per cui è stato facile sceglierla da parte dei partigiani.
Non era un abitazione abbandonata anzi li vi dimorava una famiglia che l’aveva lussuosamente ristrutturata grazie al duro lavoro oltreoceano del capofamiglia rientrato successivamente al paese nativo. A quanto ci è stato detto i partigiani se ne appropriarono un po’ frettolosamente senza troppe “finezze” nei confronti del proprietario e della sua famiglia.
Tale azione seppur avente un fine superiore stona abbastanza con la condotta che il Comandante Bisagno aveva imposto ai suoi uomini operanti nella Sesta Zona operativa redigendo addirittura un Codice di contegno, denominato “Cichero”, in cui venivano stabilite le severe regole di comportamento e le relative pene, che prevedevano in alcuni casi anche la fucilazione, che caratterizzarono sempre la formazione partigiana da lui diretta fino al successo del 25 aprile 1945. Infatti uno dei problemi più delicati e perciò da affrontare con più cura fu, per i primi partigiani, quello dei rapporti con la popolazione civile. Occorre tenere presente che essa era costituita non solo dai contadini o comunque da valligiani, ma anche da numerosi sfollati che avevano lasciato la città per mettersi al sicuro dai bombardamenti aerei.
I sentimenti ed i rapporti di questi ultimi nei confronti dei fascisti non erano individuabili con certezza.
Con tale eterogeneità, i primi approcci dei partigiani con i civili furono assai cauti. Vi era da parte dei “ribelli” la prudenza acquisita durante la semi-clandestinità iniziale e, da parte dei contadini, la naturale diffidenza che i montanari hanno per tutti i “foresti” e, in genere, verso tutti coloro che sono estranei alle loro abitudini ed alla loro vita scandita dai raccolti, dalle gelate, dalla nascita dei vitelli e dalle occupazioni domestiche. Figuriamoci poi aver a che fare con elementi che, oltreché sconosciuti e provenienti dalla città, giravano armati e, loro malgrado, avevano, in generale, un aspetto poco raccomandabile.
Tutti costoro, inoltre, potevano provocare con la loro presenza gravi rappresaglie e, se questo non fosse bastato, chiedevano viveri e collaborazione senza nulla dare in cambio come per la maison di Daglio trasformata in “ospedale”.
Stando così le cose, apparve subito chiaro ai partigiani che, se si voleva ottenere la collaborazione di questa gente, occorreva conquistarne la fiducia a poco a poco, adottando una condotta dignitosa e riservata, e mostrando anzitutto il massimo rispetto per le persone e le cose, situazione che a Daglio in questa occasione stranamente non avvenne.
La casa-ospedale è ancora oggi come allora, da fuori appare come una tipica casa coloniale, vi è un portale d’ingresso con un recinto che delimita l’attuale giardino, la struttura è su due piani con vani ampi e alti, muri spessi, soffitti decorati e pavimenti in cementine. Sono proprio i soffitti e soprattutto i pavimenti che risaltano ancora oggi agli occhi di chi si addentra per la prima volta in questa casa.
Queste pavimentazioni in cementine, il cui nome deriva dal cemento Portland utilizzato per la preparazione del calcestruzzo, erano realizzate mediante l’accumulo di polvere di marmo e ossidi naturali e possedevano uno strato superiore composto da sabbia sottile ovvero la cosiddetta “pastina”.
Le fantasie dipinte completamente a mano donavano un tocco artistico a queste piastrelle e i decori in mosaico con motivi di greche o fregi, permettevano di introdurre nelle case uno stile liberty e un’attitudine decisamente popolare. Inoltre, queste piastrelle non erano in alcun modo sottoposte a fasi di lucidatura o levigatura, ma venivano trattate naturalmente con olio di lino che svolgeva una funzione protettiva per l’infiltrazione di macchie o di sostanze liquide.
Le cementine d’epoca rappresentavano allo stesso tempo una soluzione economica e di assoluta resistenza ma, la loro singolarità, ha permesso alle abitazioni che le contenevano di assumere un valore impareggiabile nel tempo.
Oggi, infatti, le dimore storiche non ristrutturate che custodiscono ancora le cementine originali, esaltano un prestigio autentico caratterizzato da un’atmosfera ricca di storia e di vita quotidiana capace di coinvolgere ed emozionare chi le osserva come l’attuale villetta in Daglio.
In questa dimora uno dei vani al piano superiore adibito a camera da letto ci restituisce ancora oggi la storia di un incendio con esplosione verificatosi durante il periodo da nosocomio partigiano, la macchia nera dell’incendio fa ancora mostra di se sul bel pavimento in cementine a voler ricordare ineluttabilmente a chiunque entri in quella camera quel periodo di sofferenza come se fosse un opera d’Arte con tutto quello che l’Uomo sa creare in questo mondo, dal bene e dalla prima luce fino all’inizio del male e dell’intenso buio.

Paolo Zanardi di Alpe e Linda Repetti di Daglio

(Articolo tratto dal N° 30 del 07/09/2023 del settimanale “La Trebbia”)

Lascia un commento