Il cammino di San Colombano, fino a Bobbio, da dove il monaco illumina ancora le strade d’Europa

Il Cammino di San Colombano ripercorre il peregrinare del monaco irlandese tra il 590 e il 615. Partito da Bangor, in Irlanda del Nord, arrivò fino a Bobbio dove fondò un’abbazia e morì. Il tratto italiano, circa 330 chilometri, diviso in 18 tappe, parte da Villa di Chiavenna, passa da Milano e si conclude a Bobbio.

Il sole buca la collina nel punto in cui gli alberi ricamano il confine tra terra e cielo. I boschi rivestono i crinali fino a toccare il fiume. Non potevamo rendercene conto finché la luce non ha iniziato a plasmare ogni rilievo e a restituirci il mondo che ci aveva tolto la sera prima. Se ci voltiamo nella direzione da cui siamo venuti, la Pietra Parcellara e la Pietra Perduca sbarrano la valle, due sentinelle a chiudere la strada per il nord. La via da cui veniamo ha attraversato il Po, ora avvolto nelle foschie nel punto in cui il fiume permette il transito guadando. Ha costeggiato l’Adda, infilandosi in gole dove abbiamo sentito ruggire l’acqua. Ancora più indietro le montagne del Lario si sono fatte accarezzare a mezza costa dai sentieri, dando la sensazione di un volo sospeso sull’acqua del grande lago, così diverso da quelli più piccoli che si sfiorano nel cuore delle Alpi. Sotto le ali delle aquile, lassù, l’ultimo passo è stato il Septimer, che prima di noi ha visto transitare le legioni romane. Le montagne sono diventate altissime e con le cime innevate, diverse dai rilievi dolci vicini alle sponde del Lago di Costanza, che il nostro itinerario ha toccato. Ancora più su, le città del passaggio tra Sassoni e Alemanni erano Magonza, Coblenza, Strasburgo. Nella terra dei Franchi, le tracce ci hanno portato a Soissons, Parigi, Rouen. E prima ancora in Borgogna e in Irlanda, da dove è iniziato tutto.

Quando abbasso lo sguardo e vedo i miei piedi penso a quante volte hanno accarezzato il suolo tracciando la linea che ci ha portato fino a qui. Se guardo alle mani appoggiando per un attimo il bastone, fisso i palmi e penso a quello che abbiamo dato a ogni tappa e a quello che da ogni tappa abbiamo ricevuto. Con le mani abbiamo costruito spostando pietre, con le mani abbiamo condiviso spezzando pane, con le mani abbiamo dato amore accarezzando altri. Con le mani abbiamo eretto chiese e pregato, arato campi e servito cibo, abbiamo toccato le pareti di prigioni e ne siamo evasi. Sono le mani che più di ogni altra parte del corpo hanno agito per il cuore, riuscendo a cogliere quanto c’era attorno comprendendolo, facendolo mio. Facendolo nostro. Perché non ero solo. Il valore di quanto mi circondava, ieri, oggi e domani, è amplificato da chi mi è a fianco. I miei passi sono stati i loro, il mio affanno è stato il loro, la mia gioia è stata la loro.

L’impegno per tenere viva la via

Guardo al cielo. È più blu del solito. Nessuna nube, un aereo lascia la scia verso chissà dove, una colomba si alza da un tetto vicino. Questa mattina è diversa dalle altre. Ne siamo tutti consapevoli, gli amici che ho incontrato a Mezzano Scotti e io. Siamo all’inizio della tappa che conclude il cammino di San Colombano. Mi piace pensare che in questo istante i nostri passi si stiano innestando su quelli di qualcuno che ci ha preceduto e che nell’arco di una vita pur lunga per l’epoca in cui è vissuta – 75 anni nel VII Secolo – ha attraversato mezza Europa a un ritmo che noi oggi chiamiamo slow ma è semplicemente quello naturale che per secoli la nostra specie ha conosciuto. E in questi passaggi lenti ha fondato comunità, eretto abbazie, consolato anime, bacchettato prepotenti. Non sempre gli è andata bene, ma la forza che aveva dentro nell’animo e quella che aveva attorno nella compagnia ha fatto sì che oggi siamo qui a raccontarla con un cammino.
Con me c’è Andrea Beretta, una delle menti che tiene viva la memoria di questo tragitto strutturandolo in tappe e incoraggiandone il percorso. La sua è una storia nella storia. Amministratore di un piccolo paese, condivide con San Colombano l’animo costruttore. Lo si capisce per come gli si illuminano gli occhi appena parla del progetto di una scuola modello che è riuscito ad avviare nella comunità dove abita. Oggi è mente, cuore e portafoglio nell’impresa di raccontare la storia bellissima del monaco irlandese che ci ha riunito a Mezzano Scotti, inizio della tappa conclusiva del Cammino di San Colombano. Ascoltando la sua esperienza, si capisce che l’impegno fisico del percorso è solo una piccola parte dell’impresa. Non lo dice, ma sono sicuro che ci sta mettendo tanto di suo, il suddetto portafoglio compreso. Confessa che non è facile far convivere l’entusiasmo di alcuni con le mere logiche di mercato di altri. Ma dal racconto è evidente che prevalgono le parti positive, quelle che mi fanno pensare che probabilmente San Colombano stia tenendo una mano sulla testa riccioluta che ho di fronte.

Il plantigrado ammansito

Sul versante italiano del percorso, 10 tappe dal superamento del confine con la Svizzera fino a Milano e 8 da Milano a Bobbio, il cammino è un’occasione di incontro e collaborazione tra le comunità. Tra gli entusiasti c’è anche Monsignor Adriano Cevolotto, vescovo di Piacenza, che ha percorso il tratto di casa dal guado di Sigerico sul Po fino a Bobbio, pellegrino sulle strade che oltre 1400 anni fa percorse il monaco Colombano. «Non camminiamo mai da soli e, per essere sicuri, dobbiamo seguire le orme di chi ci ha preceduto», ha scritto all’inizio del cammino in direzione della basilica che è tappa finale del percorso. Davanti a noi la salita serpeggia lieve tra un campo e una siepe. Una piccola vigna ci pone il dubbio se attraversarla o piegare a sinistra, verso sud. Appena oltre, un segnavia in metallo fuga ogni dubbio e indica il transito del Cammino di San Colombano. Il percorso dell’ultima tappa non si discosta da quelli immediatamente precedenti per come mantiene la quota. Le strade di fondovalle sono un’invenzione recente nella storia dell’uomo. Prima di ponti e asfalto era complicato stare sul livello del fiume con il rischio di piene, paludi e passaggi precari. Molto più semplice mantenersi leggermente più in quota come stiamo facendo in questo momento. Nella fascia che stiamo attraversando oggi prevalgono i campi coltivati. Ai tempi di Colombano qui c’era probabilmente una selva ininterrotta con rari appezzamenti domati dall’aratro. Non era una vita facile non solo per la complessità dell’orografia ma anche per le complicazioni che potevano sorgere. Quando ci si spostava erano frequenti gli incontri con i malintenzionati. E quando non ci si spostava erano le complicazioni a venirti incontro. Orsi e lupi erano presenze frequenti. Proprio l’agiografia di Colombano ci ricorda come il santo avrebbe ammansito un orso dopo che questi aveva ucciso un bue. La scena è raffigurata a Bobbio su uno dei lati del sarcofago del monaco. Nel marmo, sotto la mano provvidenziale di Colombano, il plantigrado smette di essere feroce e si lascia mettere il giogo sotto gli occhi stupefatti del contadino e del bue superstite per riprendere il lavoro nel campo. Non sappiamo se sia andata proprio così, ma rispetto san Colombano e il suo collega Francesco per il bel da fare che hanno in quest’Italia che considera orsi e lupi solo come minacce.

I picchi e il placido Trebbia

Elevatosi di circa duecento metri, il percorso continua alternando la macchia boschiva a prati. Ci sono tratti che incantano per come sono delimitati a valle da un caleidoscopio di fioriture spontanee e a monte dalla barriera di contenimento fatta in tronchi. È di una delicatezza che non passa inosservata questa strada che raggiunge le frazioni alte dell’abitato. Muri in pietra e gatti assonnati sono la quieta scenografia di ogni borghetto al nostro passaggio. L’occhio attento gode dei dettagli da dipinto agreste, con il vecchio carro in legno sotto il fienile e le case che si affiancano casualmente formando un accostamento bizzarro probabilmente legato a vecchi confini. Andrea ricorda come, passando di qui, una vecchietta li rifocillò con un bicchiere di vino. I cartelli sono frequenti e ben collocati, presenze rassicuranti insieme all’app che Andrea consulta dallo smart phone e alla guida di Terre di Mezzo che io sfoglio. Qui si capisce subito la differenza tra l’organizzazione dell’ingegnere e la primitività di chi scrive. I nostri cammini si sono probabilmente incrociati per compensarci e la comunione dei nostri intenti si conferma in vista di un albero di ciliegie che più rosse e polpose non si può. La merenda a metro zero è stata automatica. In due ore di pace, costeggiamo una serie di picchi che ci fanno immaginare come in passato la zona fosse costellata di torri di avvistamento, via via più alte rispetto a noi mentre scendiamo alla quota di Bobbio, oramai in vista nel punto in cui il placido Trebbia è attraversato dal Ponte Gobbo. Talmente noto che la studiosa Carla Glori sostiene che il passaggio possa essere quello riprodotto sullo sfondo della Gioconda.

La guida, il don: la lezione di Bobbio

Nel centro storico ci accolgono il vicesindaco e la guida locale. Nel raccontarci Bobbio, Roberta Picchioni ci confessa che vorrebbe occuparsi di arte per tutta la vita entrando nella Sovrintendenza dei Beni Culturali. Da come racconta il suo borgo, le qualità non le mancano. Un altro reo confesso di amore per l’arte ci accoglie nella basilica. È Don Mario Poggi, parroco e custode del sepolcro di Colombano. Penso a lui come il depositario di due tesori, quello fisico del museo locale ma anche quello di tutte le storie che si sono fermate in questo preciso punto, nella cripta che lui ci descrive con tanta dovizia di particolari. Non bastassero le sensazioni della giornata e l’ombra del portico rinfrescata dal profumo dei colli piacentini che ci abbracciano, c’è un aspetto di questo bagaglio che porterò via con me da Bobbio. In un momento in cui si discute sulla necessità o meno dell’Europa, l’esempio di Colombano è un lume che fa luce su strade buie. Nel 591, all’età matura di 50 anni, questo monaco lascia Bangor, nel nord dell’Irlanda. Accompagnato da 12 discepoli, tocca Gran Bretagna, Francia, Germania, Svizzera e Austria fino a raggiungere il nostro Appennino nel 614 dopo aver insegnato ad arare e a pregare, a unire e a costruire. Posso immaginarlo davvero come un esempio di un’Europa fatta di buoni propositi e dimostrazione che quanto ci unisce è sempre molto di più di quanto ci divide. A partire da un cammino dove si impara che muoversi è molto più facile se a fianco c’è qualcuno che può tenerti per mano quando il passo si fa incerto.

Stefano Paolo Giussani

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