Bertassi e la sua cultura contadina

Il paesello di Bertassi (comune di Ottone in provincia di Piacenza) si può a buona ragione definire come aprìco e solatìo, steso e, nello stesso tempo, quasi aggrappato, sul dorso di un grande bosco. Prima della massiccia emigrazione verso la pianura Padana e verso Genova, era ricco di prati e pascoli, con connesse e saporite produzioni di latticini. I pascoli sono rimasti, in alto, perché il bosco si attenua, fino a morire lì. Paesaggi incantevoli e rari in quella lunga e tortuosa valle, solcata dal Trebbia che, a tratti, diventa un naturale e suggestivo susseguirsi di spiagge e spiaggette, per lo più domenicali o di fine settimana.
Incredibile spettacolo a vedersi, su un serpentello di strada amatissima dai ciclisti e motociclisti. Con vedute, di orridi e precipizi, spesso mozzafiato.
Bertassi non sembra neanche il nome di un paese, ma piuttosto un cognome di famiglia, antico nel tempo lento della cultura contadina.
Ma parlando di famiglie, due ve ne sono, tradizionali e patriarcali: i Capelli e i Casazza.
Poi la toponomastica famigliare si fermava, nell’orgoglio dei due ceppi per aver determinato e determinare, a tutt’oggi, un paese!
Un passato, quello di Bertassi, sicuramente degno di essere ricordato come emblema di una civiltà contadina ormai persa, a seguito di un dopoguerra inquieto e burrascoso, dove l’emigrazione massiccia aveva sensibilmente ridotto un corpus abitativo da duecento anime circa ad una cinquantina o poco più.
I suoi abitanti avevano tutte le caratteristiche della gente montanara, adusi alle crude fatiche cui un tempo erano condannati, senza saperlo, senza volerlo e senza lamento.
Nessuna emancipazione veniva richiesta da questo antico mondo agricolo, impastato di molte sofferenze e di sparute gioie, legato più al naturale ed istintuale succedersi degli avvenimenti, che non ad una costruzione razionale e programmata.
Qui, i programmi si pensavano scanditi dall’alto, per tutti, perché tutti credenti, o, tutt’al più, prospettati e messi in atto da una natura benevola (poche volte) o beffarda (molto più spesso).
Qualche richiesta, ogni tanto, per non disturbare, veniva indirizzata a Domineddio, perché facesse crescere sani i figli e almeno uno della folta nidiata munito di “un pezzo di carta”, a costo di ulteriori sacrifici: di decine e centinaia di carichi in più di legna da portare su, dai dirupi vallivi, lungo i sentieri, erti da ingobbirti ulteriormente, pesi da sgrugnare lungo quei percorsi masticando radici amare di genziana per attenuare il dolore e addomesticare la fatica.
Qualche ascolto, meritato, alla fine fu concesso da Dio o dalla sorte, a qualcuno, per dismettere totalmente il basto, i carichi, il fieno e il letame con i loro acri measmi di povertà.
Ai giovani, dopo stagioni di consuetudinari lavori agresti in compagnia del padre, non era rimasta sorte migliore se non quella di emigrare, tentando la fortuna e confidando nelle proprie vigorose braccia.
In quelle terre straniere ed estranee, non familiari e quasi sempre ostili, la vita diveniva, ancora una volta, una quotidiana impresa, condita di nascoste sopportazioni, di dure fatiche, di indiscusse obbedienze, il più delle volte nella totale o parziale negazione dei primari diritti umani, civili e sindacali.
Scappavano da terreni sassosi, infertili, ripidi!
Avevano i prati per qualche vacca, qualche diritto di malga, qualche dirupo da rischiarci la pelle per un carico di fieno, qualche lite per un confine o per un piscio d’acqua.
Quando andava bene ne avevano abbastanza per non morir di fame, con le eccezioni autunnali, dove tutti avevano qualcosa da mettere sotto i denti: patate, formaggi, castagne, frutta, carne, se moriva una bestia nell’alpeggio.
“Il giorno più lungo è quello che si sta senza mangiare” era un detto della cultura contadina, perché il ventre vuoto dilata la misura del tempo indefinitamente, allargandola come una vescica rigonfia.
Veniva spesso in soccorso il paiolo che bolliva lentamente, quasi di continuo, appeso alle catene del camino, alimentato da un fuoco perenne o tenuto tiepido da una brace raramente spenta o fredda cui erano sconosciuti i mutamenti di stagione. Intorno, sparse, si stendevano le ceneri del focolare, anch’esse utili a cuocere patate, cipolle, castagne e rosse mele invernali.
Fuoco e paiolo, assieme all’acqua salata, erano il semplice e magico “fondo” dal quale, con l’aggiunta di lardo o strutto, si tirava miracolosamente fuori una minestra o una zuppa, elementi fondanti della casa contadina.
Il fuoco, più che elemento naturale, era, per le case contadine, un “essere sociale”, con il suo vivido oro, il suo pruriginoso odore, il suo singhiozzante scoppiettìo, l’acre fumo o la sua fiamma addormentata nei rigidi, interminabili e bianchi inverni.
E le castagne, “quelle di Bertassi”, che, a valle, si scambiavano a pari col granoturco?
Era il frutto per eccellenza degli autunni colorati ed odorosi, sia delle umane crescite individuali che parimenti dell’ingrasso animale, oltre che tradizionale offerta agli antenati nel culto dei Morti alla vigilia di Ognissanti.
Alla fin fine, col trascorrere dei decenni del vecchio secolo, nella società che evolveva, i contadini, quelli di montagna, scomparivano come entità sociale, come li abbiamo conosciuti, pazienti come le loro bestie: aspettavano la pioggia che facesse crescere l’erba, aspettavano il sole che la facesse essiccare; ripetevano tutti gli anni gli stessi gesti; li ripetevano dall’inizio del mondo in una consapevole forza positiva nel possesso dei beni materiali e immateriali che la natura ogni giorno, e giorno per giorno, profferiva, sia sole e sia pioggia, sia cielo e sia terra.
Erano le radici dell’umanità!
Oggi, quei contadini non esistono più!
Tutto è cambiato!
La società della modernità liquida ha cancellato ogni precedente paradigma per farsi strada sui concetti del guadagno, della resa, del profitto, del rapporto costo/beneficio, in una solitudine umana estesa e diffusa, in una mancata richiesta del valore filosofico che si dà alla vita e ai suoi perché.
Ma, forse, senza scomposte dietrologie, il riandare e il riflettere sulla vita contadina di un tempo possono far “ritrovare” valori e identità perdute, qui, dove la vita è sempre stata un punto di domanda, ha sempre preso alla gola; qui, dove la successione di due, tre, quattro, cinque quinte di spalti montani, e lo spettacolo, hanno in sé il filo di un incantesimo che domani si ripeterà …

(Testo di Giuseppe Biati pubblicato su Facebook)

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