Il pastorello in affitto

Il professor Attilio Carboni nella Trebbia del 6 febbraio 2020 ha magistralmente tratteggiato la figura del pastorello/a (vaccà,vaccaia, pl. vacchè,vaccaie). Ritorno sull’argomento per aggiungere qualche particolare e soprattutto per descriverne una particolare tipologia: quella del pastorello in affitto. L’attività agricola delle nostre valli era a bassissimo contenuto tecnologico ed essenzialmente basata sul lavoro umano ed animale, in questo contesto l’opera del vaccà non era affatto secondaria. Era infatti molto importante far alimentare i bovini in pascoli frazionali, cioè comunitari, per non consumare foraggio mentre si facevano le scorte per il lungo periodo nel quale sarebbero stati custoditi nelle stalle. Chi non aveva figli con meno di 13/14 anni, età nella quale si cominciava ad essere avviati ai lavori agricoli, individuava quelli di un’altra famiglia e si recava a chiedere la loro opera. Il prendere in affitto i servizi di un ragazzo o di una ragazza si chiamava curdâ u vaccà. Il contratto partiva dai primi di maggio ed arrivava alla metà di ottobre, al fanciullo/a veniva garantito il vitto, l’alloggio, il vestiario ed ai genitori andava un modesto compenso in denaro. Alla scadenza era abitudine dotare il pastorello di un paio di scarponcini nuovi con la suola di cuoio rinforzata dalle bullette (bruchette), calzature molto gradite e di cui andare fieri.Erano soprattutto le famiglie numerose, che spesso si trovavano in condizioni economiche estremamente precarie, ad accettare che uno dei loro figli si recasse a servizio anche se forte doveva essere il trauma della separazione in età molto precoce, talvolta anche a 5/6 anni. Solo i più fortunati venivano infatti “affittati” a famiglie di compaesani, per gli altri era necessario spostarsi anche se in genere le distanze dal paese natio non erano eccessive. Ad esempio Alpe di Gorreto “esportava” pastorelli verso Fontanarossa, Bertassi e Suzzi ma nel paese c’è memoria anche di alcuni “importati” da Varni e da Bogli. Fortunatamente a mitigare le ansie dei pastorelli più piccoli intervenivano quelli più grandicelli che li prendevano sotto la loro protezione istruendoli sul comportamento dei bovini e le caratteristiche dei pascoli. Il lavoro della custodia degli animali non era in sé faticoso anche se rigidamente cadenzato: dalle 7 del mattino alle 11.30, dalle 15.30 al tramonto. Quando le giornate iniziavano ad accorciarsi si preferiva che i bovini stessero tutto il giorno al pascolo ed allora a mezzogiorno, quando si coricavano per ruminare, i pastorelli potevano lasciarli momentaneamente incustoditi e tornare al paese a mangiare oppure potevano consumare il cibo che avevano portato con sé. La sveglia era attorno alle 6.30 del mattino e dopo la colazione iniziava il rituale quotidiano: i bovini (dai due agli otto esemplari a seconda delle famiglie) venivano fatti uscire dalle stalle ed avviati alle zone, dove avrebbero pascolato, tramite strade impervie e sassose. Si arrivava all’inizio del pascolo e gli animali che lungo il cammino si erano mossi in fila si dispiegavano sparpagliandosi e venivano lasciati libere di brucare l’erba (questa operazione era detta pigâ e vacche). Gli animali si nutrivano muovendosi e riuscivano a percorrere un tragitto relativamente lungo ma dovevano essere sempre tenuti sotto osservazione dai vacchè che li seguivano facendo quattro o cinque tappe. Una delle direttive era quella di non permettere che i bovini si avventurassero in zone in forte declivio (intubruttu) che avrebbero potuto metterne a rischio l’incolumità. Altra cosa assolutamente da evitare era che scappassero dai pascoli attirati dal trifoglio o dall’erba medica dei prati privati, o, peggio ancora, danneggiassero i seminativi. Poteva anche accadere che, per distrazione, il pastorello perdesse di vista il branco sotto la sua custodia e non riuscisse più ad individuarlo; in genere gli animali si dirigevano verso la propria stalla ma poteva anche accadere che si mescolassero ai bovini di un paese vicino: in quel caso erano custoditi in attesa che il proprietario si recasse a prenderli. Quando ciò accadeva al pastorello non veniva risparmiata una severa reprimenda. Problematico era il custodire gli animali nel mese di giugno: coi primi caldi i bovini venivano attaccati dai tafani (tavàn) e le loro punture li facevano imbizzarrire (zigliâ): si mettevano a correre cominciando a scalciare e a muoversi in modo forsennato dirigendosi in genere anzitempo verso le stalle per stare al fresco.
Durante il turno di custodia i pastorelli si sedevano all’ombra di cespugli di nocciòlo o di ginepro. Per passare il tempo giocavano a bocce utilizzando le escrescenze tonde dei castagni, a tela mulino, ai balùn (gioco manuale fatto usando piccole sfere di pietra) e, più raramente, a carte. Alcuni suonavano la fisarmonica a bocca (urganin) o colpivano bersagli con la fionda (tirasassci); altri intagliavano la scorza di piccoli bastoni a motivi geometrici con coltellini il cui possesso era molto ambito. Costruivano anche gli zufoli (scibiö) scortecciando un tronchetto di sambuco e svuotandolo del tenero midollo. Si dedicavano anche ad attività che oggi definiremmo antiecologiche: appiccare il fuoco ai ginepri per sentire il crepitare dei loro aghi, bruciare gli escrementi disseccati dei bovini (buazze), scoperchiare formicai, prendere uccellini dai nidi. I vacchè avevano come loro protettore Sant’Antonio da Padova (Sant’Antunin e in occasione della sua festività (13 giugno) facevano nei pascoli una sorta di processione portando rami fioriti di maggiociondolo. Oltre al compito di custodia da alcune famiglie veniva richiesto che portassero a casa un fascetto di rametti secchi (biscaglìn) da usare nell’accensione del fuoco nella stufa. Le pastorelle erano anche tenute ad aiutare le “padrone” nei lavori domestici.
Come detto il lavoro della custodia degli animali, soprattutto i bovini, non era in sé faticoso ma il lavoro di vaccà prevedeva altri compiti: slegare e legare gli animali nella stalla rispettivamente alla partenza e all’arrivo per e dai pascoli; nell’occasione bisognava fare molta attenzione alle corna: un movimento brusco della testa dell’animale poteva portarle a colpire il viso del ragazzo/a. Un tempo non era raro vedere persone alle quali, a causa di un’incornata, era stato asportato un bulbo oculare sostituito poi con uno di vetro.Tra i doveri dei pastorelli c’era anche quello di aiutare il “padrone” ad aggiogare gli animali alle slitte e stare davanti ai bovini che trasportavano fieno o altri prodotti agricoli tenendoli per apposite corregge con catenelle (zunche) collegate sia al timone della slitta che alle corna degli animali; l’operazione era difficoltosa se la slitta procedeva in discesa nelle strade a forte pendenza o in strade strette lungo un dirupo.
Girando attorno agli animali bisognava fare anche molta attenzione a non essere colpiti da calci non tanto da quelli dei bovini, in genere abbastanza tranquilli, ma da quelli degli equini: temutissimi in particolare quelli dei muli. Altro momento di grande pericolo era quando le mandrie, di ritorno dai pascoli, si affollavano attorno agli abbeveratoi e iniziavano a colpirsi con le corna in modo molto aggressivo.
I pastorelli “in affitto” che arrivavano spauriti e talvolta anche laceri e denutriti, erano in genere trattati bene, come ragazzi di famiglia, anche se le dure esigenze del lavoro agricolo li costringevano talvolta a duri risvegli all’alba; molto dipendeva naturalmente dai datori di lavoro, i padri e le madri della famiglia che li ospitava, e spesso erano proprio le donne ad intenerirsi vedendoli piccoli ed assonnati. Momenti particolarmente critici erano quando, nel periodo estivo, si facevano trasporti di fieno iniziando le operazioni all’ora del canto del gallo ossia due ore prima del far del giorno. Molti pastorelli mantenevano un legame affettivo con la famiglia presso la quale avevano lavorato ed anche da adulti passavano talvolta a salutarla con piacere. Non sono mancati casi in cui le pastorelle hanno sposato i figli dei loro “padroni” o casi di maschietti che sono rimasti poi tutta la vita presso famiglie che non avevano eredi e che di fatto li adottavano.
L’attività dei piccoli custodi di bovini, sia di famiglia che “in affitto”, terminò con la fine della civiltà contadina, ormai consegnata alla storia e agli storici che la studiano sottraendola all’oblio che, come dice Foscolo, “involve tutte cose nella sua notte”.

Giovanni Salvi

(Articolo tratto dal N° 7 del 25/02/2021 del settimanale “La Trebbia”)

Lascia un commento