Un’antica pratica di trasformare la legna in carbone

Fino al secondo dopoguerra è rimasta in uso nei nostri monti una pratica antichissima: quella di trasformare legna in carbone tramite le carbonaie (carbuninn-e).
Mi accingo a descrivere quelle fatte sul monte Zucchello dagli abitanti di Bertassi. La carbonaia richiedeva una serie di precise procedure.
Occorreva anzitutto preparare la legna ricavandola da alberi di cerro, faggio, castagno, carpine, frassino e citiso (asburnu): la si tagliava in varie pezzature e si spaccava quella più grossa. Bisognava poi pulire un tratto di bosco e procedere ad uno scavo fino a ricavare una piazzuola atta ad ospitare la carbonaia vera e propria ed il capanno dei lavoranti, si operava infatti lontano dal paese; il capanno era fatto in legno e coperto di zolle erbose (zerbùn).
Si iniziava la costruzione della carbonaia sovrapponendo in modo incrociato un certo quantitativo di legname così da lasciare al centro un vuoto denominato “canna”; attorno a questa struttura venivano disposti, con opportuna inclinazione, prima i pezzi più grossi e poi i tronchetti. Il tutto veniva ricoperto di erba secca (falasca), foglie, zerbùn e sigillato con terra (faghe a camixa) perché la combustione doveva avvenire in presenza di poco ossigeno; alla sommità si poneva una chiusura particolare in modo che passasse un po’ d’aria, perché la carbonaia doveva “respirare”.
Ad operazione compiuta il manufatto assomigliava ad un cono tronco con un diametro di base dai tre ai quattro metri e un’altezza di poco superiore ai due.
Si accendeva poi il fuoco nello spazio centrale lasciato vuoto durante la costruzione; questo fuoco doveva essere alimentato ed era il tipo di fumo che usciva a segnalare quando era il momento di aggiungere legna; in proposito si diceva, umanizzando la carbonaia, che “aveva fame” e che bisognava “darle da mangiare”. Per fare questo si ricorreva all’uso di una scala e durante la notte si faceva luce con una lanterna a petrolio.
La carbonaia andava continuamente tenuta sotto controllo perché non si aprissero falle nelle pareti, in quel caso il rischio era che la legna si incendiasse vanificando tutto il lavoro.
Il processo di cottura durava dagli 8 ai 12 giorni a seconda della quantità di legna usata, in genere dai 10 ai 15 quintali e la resa era di circa il 20%.
Dalla carbonaia accesa usciva un fumo bianco-grigio, quando diventava azzurrognolo il carbone era cotto e si provvedeva a togliere la copertura. Il carbone che appariva era arroventato e bisognava bagnarlo (smurzâ u carbun) altrimenti si sarebbe innescata l’autocombustione. Era un momento molto delicato, si doveva procedere velocemente e a tal fine si mobilitavano tutti i membri validi della famiglia per portare coi secchi l’acqua dalla più vicina sorgente.
A questo punto il carbone era pronto, quello più pregiato, chiamato “cannielu” (mattarello) derivante da tronchetti di faggio di misura regolare rimasti interi, era ben pagato e molto ricercato per essere usato nei fornelli delle cucine in muratura (runfò).
Dopo essere stato messo nei sacchi veniva trasportato con le slitte fino a Gorreto dove passavano i camion a caricarlo.
Se fatte da un singolo (che si faceva aiutare da una persona durante la fase di cottura) tutte le operazioni richiedevano dai venti a trenta giorni, il periodo scelto era in genere quello del tardo autunno per non sottrarre tempo ed energie ai lavori agricoli.
Durante la Seconda guerra mondiale i carbonai locali furono militarizzati ed esentati dalle operazioni belliche essendo stato dichiarato il carbone bene di interesse strategico.
Finite tutte le operazioni si smontava il capanno e si liberavano gli spiazzi dei quali sono rimaste visibili le tracce fino a qualche anno fa; si racconta che in quegli stessi spiazzi crescessero poi per molti anni copiose le fragole.

Giovanni Salvi

(Articolo tratto dal N° 18 del 28/05/2020 del settimanale “La Trebbia”)

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