Il santuario dell’Alfeo fin dall’antichità era meta di venerazione

L’Alfeo (m. 1651 s.l.m.), si erge solitario tra il fiume Trebbia e gli affluenti Boreca e Tarenzone, che ne lambiscono l’ampio perimetro e ne sono marcati confini. Uno stretto filamento lo unisce alla catena appenninica, nel comprensorio delle 4 Regioni, in alta valle. Posizione; forma solenne a piramide; ascesa impegnativa; natura esuberante e varia; vista ampio-spaziante esprimono sacralità, autorevolezza, riferimento sicuro, piacevole. Incutono soggezione, rispetto. Attraggono. Il nome è antico ed importante: in greco significa “bianco”, forse allusione alla neve abbondante della sua vetta, nei lunghi mesi invernali; ed anche “occasione, risorsa”. O forse richiama il mito del Dio omonimo e della ninfa Aretusa, trasformata in fonte. Nel Nuovo Testamento si chiama “Alfeo” il padre dellApostolo Giacomo minore.
I Liguri, molti secoli prima di Roma e dell’era Cristiana, frequentavano la zona o ne avevano stabile dimora. Fotografie aeree documentano tracce di insediamenti a quella civiltà riferibili, nella conca di Toveraia (Comune di Ottone). Scavi nel sito di Zerba hanno rintracciato numerosi sepolcreti.
Quei nostri antenati non costruivano templi, come gli altri popoli, ma le sommità più significative erano ricercate mete per esercizio, fruizione e pratica, di straordinarie, coinvolgenti intimità esistenziali e religiose. L’Alfeo si prestava più degli altri monti circostanti allo scopo: ancora oggi, infatti, continua a suscitare fortissime emozioni, sentimenti e prospettiva di trascendenza. La vetta, in direzione sud, offre alla vista il suggestivo spettacolo dell’onda che instancabile flagella tormentati scogli e si trasforma in candida spuma. Appare nitido il profilo della Corsica, con le sue alte, frastagliate coste. Gli azzurri propri del cielo e del mare, agli estremi confini dello spazio visibile, si perdono confondendosi gli uni negli altri. Vaghe, eteree, sullo sfondo, Elba, Capraia e Gorgona; sfumati territori e rilievi della Toscana… A nord l’innevato arco delle Alpi, con le sue “dentate scintillanti vette” dove “salta il camoscio, tuona la valanga”, incornicia la Pianura Padana, immensa, verde. Osserviamo con facilità Gran Paradiso, Cervino, Rosa, Monviso… e, con un po’ di fortuna, Adamello, Gruppo del Brenta, del Cevedale… “Sedendo e mirando”, si è assorbiti dalla bellezza, dalla poesia. Sulla vetta tutto trascende in meraviglia e sorpresa, ma si fa presto spunto a pensieri profondi… Affratellati agli Antichi, ci ritroviamo in sempre nuova, misteriosa, esaltante dimensione, a colloquio con l’Infinito (particella dell’infinito), per quanto a ciascuno possibile.
Il “Santuario” dell’Alfeo era raggiungibile mediante impervi sentieri, in celto-ligure “bar” “ber” di cui è traccia nei nomi propri di alcune frazioni del Comune di Ottone, poste lungo il cammino, quali Barchi, Bertone, Bertassi. Antichissimi sentieri e camminamenti, ancora fruibili, talvolta inghiottiti da faggete profonde, buie. Temibili per passaggi in precario equilibrio tra rocce aggettanti ed improvvisi abissi. Mirabili sullo sfondo delle stagioni del Cielo e della Terra; nello splendore di colori, di suoni; di aromi che brezze sapienti, di continuo, miscelano, diffondono, disperdono; ripropongono. Cespugli di Elicriso, Assenzio marino, Tanaceto, Santolina, Santoreggia, Nepetella, Melissa, Serpillo, Timo… ovunque diffusi, contribuiscono al fenomeno, generosi rilasciando, per tutta l’estate, le loro preziose essenze.
Pra di Cò (Prato Conco), è l’anticamera della vetta;. Si presenta come un’estesissima terrazza ad imbuto, a quota 1400 s.l.m. Si dice che in epoche lontane un vulcano ivi elevasse al cielo i suoi rabbiosi vapori. In effetti la configurazione del sito predispone a crederlo: un vasto cono regolare rovesciato, forse l’antico cratere, col tempo divenuto fertilissimo, centralizza acque piovane, sorgenti e resorgive, in stagno perenne. Intorno sterminate distese di erbe, di fiori, fino alla vetta, molto eccentrica, elevata rispetto al pianoro. “Ovunque il guardo giri” lo stupito fruitore assisterà al trionfo del verde, sempre mosso da vento, sfumature e toni. In Natura non esiste un verde uguale ad un altro e sul monte Alfeo ci sono infiniti verdi.
L’abbondanza di acque e di biade dell’Alfeo, ha rappresentato per millenni i migliori pascoli “d’alta quota” di Ottone e del suo circondario. Il bestiame d’allevamento, trasferito attualmente per l’alpeggio (negli ultimi anni, soprattutto bovini), lassù, torna libero, spontaneo, secondo le previsioni della natura, la Grande Madre! Le mandrie si muovono compatte, si sciolgono, si ricompongono in piacevoli geometrie; vagano, brucano, prosperano gioiose. Al tempo dei primi passi dei loro piccoli, nati sul monte, le mucche si mostrano madri affettuose, sensibili; si aiutano, si sostengono. Sempre all’erta, nella preoccupazione e nel timore, pronte a qualsiasi sacrificio per la difesa della prole. Sull’erba soffice del prato i vitellini s’incontrano, si confrontano, si scontrano; giocano, imparano. Di fronte ad improvviso predatore (lupi, un tempo anche gli orsi), o alla percezione di un presunto pericolo (l’uomo, rumori, veicoli. .. turbativa qualsivoglia), le mucche radunano la discendenza inerme con muggiti eccitati. In crescente, ma non disordinata tensione, rinchiudono i giovani nati in un cerchio spontaneo, immediato di cui si fanno circonferenza perfetta. Il loro muso è rivolto all’esterno, abbassato sul prato, quasi a sfiorare la zolla. L’occhio s’infiamma, la pupilla si dilata. Lo zoccolo nervoso, inquieto ed inquietante, scava nel suolo nicchia profonda: utile appoggio per imprimere maggiore violenza allo slancio imminente. Un intrico di corna aguzze, d’acciaio; micidiali; taglienti come rasoi; rivolto in tutte le direzioni, è pronto a scattare sull’intruso. Muscoli possenti e chiara determinazione sostengono l’impresa. Il lamento dei vitellini, impauriti e disorientati da tanto sconquasso, apporta ulteriore rinforzo all’azione. E’ difficile descrivere lo spettacolo, ma chiunque ne sia stato osservatore (postosi al sicuro, molto al sicuro), non potrà dimenticarlo. La sola vista di tale apparato di forza immensa, inesorabile, è sufficiente a scoraggiare il più robusto (affamato), nemico di turno. Con la coda tra le zampe anche l’individuò meno sagace del branco aggressore, presagisce la conclusione dell’ardua sua impresa, ormai disperata. Abbandona, pertanto, veloce, deluso, umiliato, il campo. Se ne va con poco eroismo, senza gloria, psicologicamente malconcio, ma ancora vivo. Alternativa certa, infatti, non sarebbe potuta che essere lo scempio del temerario. Dicono gli studiosi che il comportamento citato è un automatismo tipico della specie, perfezionatosi nei millenni. Non c’è improvvisazione, superficialità, leggerezza. Solo efficacia, efficienza e risultato. La Natura è una meravigliosa maestra: sul “Pra di Cò” chiunque può assistere a straordinaria lezione, molto educativa, di collaborazione, sopravvivenza, sviluppi. Se ne guardi, però, dal provocarla!
Non raramente colonie di cinghiali con i piccoli, percorrendo usuali sentieri, ben memorizzati, si accingono ad attraversare la strada che conduce ai ripetitori televisivi. La strada, polverosa sinuosità, taglia la selva, tra la frazione Aglio di Campi e “Pra di Co”, con ampia lunghissima cesura del verde. L’attraversamento è un’operazione impegnativa, ma perfettamente organizzata dal branco, con particolare cura ai dettagli. Dovendo uscire allo scoperto nulla è lasciato al caso. E’ necessario essere sempre molto prudenti, specie quando si hanno responsabilità parentali. Uno o più adulti, robusti e bellicosi, attraversano per primi. Prendono possesso di posizioni strategiche, ed accertata l’assenza di pericoli evidenti, avvertono con acustica convenuta il branco nascosto, in attesa, nell’opposta boscaglia. Un altro adulto o altri adulti, stazionano, intanto, all’inizio della carreggiata, senza attraversarla, pronto rinforzo ai primi, nell’eventualità di emergenze improvvise. Finalmente, in fila indiana, può transitare, ordinatissima e sicura, la striata prole.
Cervi e daini non mancano ed è facile incontrarli. Ci siamo imbattuti, di recente, in un gruppo di cerbiatti: uno di loro ha preferito rimanere ad osservarci; gli altri sono subito fuggiti. Nascosto (grave ingenuità), da un faggio che lo lasciava quasi completamente scoperto, continuava a scrutarci, ritenendo (forse), di non essere visto! Gli abbiamo augurato di farsi in fretta più scaltro; di trovare ben altri nascondigli; di gestire meglio il suo “vago avvenire”.
Il Pra di Cò, immenso pianoro che degrada con dolcezza verso il suo centro paludoso, si ricopre di fiori e di erbe, secondo le peculiarità di stagione e specie. Tutti apportano un prezioso contributo di colori, di forme, di miscugli armoniosi all’ottico concerto del prato. A fine giugno l’erba si tinge di delicato rosso pastello per la fioritura del Giglio Martagone. Più tardi appariranno numerosissime, svariate Orchidee e Genzianelle di Koch, con il loro blu cobalto, attinto dai sovrastanti cieli limpidissimi. Approssimandosi allo stagno, l’umidità diffusa favorisce denso sviluppo di Calta, in giallo luminoso; di profumate varietà di Mente; Vulneraria, Tarassaco, Piantaggine, Epilobio, Veronica e, nell’acqua, Nasturzio, Beccabunga… Ovunque abbondano l’Iperico, l’Origano, la Carota selvatica… In posizione sovrastante domina, flessibile, la Genziana Lutea, con i suoi fiori d’oro, affacciati alle ascelle delle foglie. E’ pianta medicinale di pregio, ora protetta. Un tempo raccoglitori improvvisati la confondevano (purtroppo), col tossico Veratro, dai fiori a spiga, tra porpora e bianco-verdastro, onnipresente sul monte.
Tra maggio e settembre compaiono nell’erba sferoidi bianchissimi e sparsi. Incuriosiscono ed invitano ad avvicinarsi: si tratta di esemplari di Calvatia plumbea o maxima, specie di vescia gigante, che può raggiungere e superare 50 cm. di diametro e diversi chili di peso, frequente negli alpeggi, frequentissima sul Pra di Cò. Quei funghi tanto singolari, privi di gambo, dotati di brevi filamenti radicali, “appoggiati” sul prato, ci trasferiscono con magica immediatezza in un mondo surreale, favoloso, da Corriere dei Piccoli, visualizzato nelle stupende tavole di Antonio Rubino. Il “fanciullino” di Giovanni Pascoli, lassù, sull’Alfeo, “dilettoso monte”, torna a parlare. Fioriscono ovunque gentili “Carline” (in onore di Carlo Magno), dalle piacevoli infiorescenze stellari, perfetti barometri naturali, preziosi (ed esclusivi), indicatori meteo nella civiltà rurale. Non mancano i cardi “rossi e turchini” a cui si riferisce il Carducci nella sua bella poesia: “Davanti San Guido”. Rari cespugli di rosa canina e lampone, ai margini, senza invadenza, incorniciano il pianoro cedendo poco dopo alle sottostanti selve esuberanti. Mescolate al faggio crescono piante secolari di Agrifoglio, distinte nei due generi, come il ginepro, molto frequente tra querce e cerri. Ogni anno il monte Alfeo continuerà a disporre dei suoi tipici “alberi di Natale”: agrifogli enormi, slanciati (anche verso la primavera e l’ottimismo), verdissimi, decorati dalla Natura, massimo artista, con sfere rosso fuoco, su sfondo innevato, a contrasto. Una meraviglia!
In vetta, nel 1954 (anno mariano), su iniziativa del Vescovo di Bobbio, Mons. Pietro Zuccarino (1953/1973), fu elevato un monumento alla Madonna, protettrice del Monte e della sua gente. Proprio dove furono scavate le fondamenta alla statua della Beata Vergine si ritrovò un bronzetto, forse ex voto, attualmente depositato presso il Palazzo Farnese di Piacenza. L’importante manufatto risale al III/II secolo a.C. ed è espressione del culto delle Vette, praticato dagli antichi Liguri.
Il ritrovamento casuale, ma significativo, traduce l’attenzione dei secoli per il monte Alfeo, sfondo e riferimento ad espressioni e riverberi di fede e religiosità. Le due statue riscontrano il fascino profondo dell’Alfeo esercitato sulle valli circostanti, immutato nei millenni; saldano il passato al presente, annullano i segmenti del tempo. L’ascesa alla vetta, consentendoci di “avvertire con animo turbato e commosso” e “contemplare (almeno un po’), con mente pura”, ci restituisce ad integrità esistenziale; rappresenta importante occasione per nuovi equilibri, relazioni, prospettive; incoraggia, rasserena. Ci ricorda il poeta Orazio, da 2000 anni, quanto sia utile “aggirarsi, silenziosi, in mezzo alle foreste che donano salute”. Chiunque può facilmente sperimentarlo frequentando boschi e prati, immergendosi nella natura, raggiungendo alte cime. L’Alfeo tra quelle. Alfeo il “Magnifico”, un Principe tra le montagne piacentine. Molti sono i sentieri e i camminamenti che portano alla vetta. Quanto sopra descritto ha fatto riferimento alla partenza dalla frazione Campi di Ottone via Aglio e Pra di Cò.

Attilio Carboni

(Articolo tratto dal N° 15 del 18/04/2013 e N° 16 del 25/04/2013 del settimanale “La Trebbia”)

Lascia un commento