Settant’anni fa, il 19 settembre 1953, una grande alluvione Interessò quattro vallate: Fontanabuona, Bisagno, Scrivia e Trebbia

Il nubifragio e la conseguente alluvione del 19 settembre del 1953 – giusto settant’anni fa – è ancora vivo nei ricordi di chi ha superato gli 80. Ed è considerato un evento memorabile, paragonato a quello del 15 settembre 1915, del quale non si era ancora persa memoria.
“Sabato mattina – racconta al cronista un abitante di Gattorna – incominciò a piovere e d’improvviso si piombò nel buio più completo. Sebbene fossero le dieci si dovettero accendere le luci. Saette e tuoni si succedevano con una frequenza impressionante. Pareva il finimondo. Le donne piangevano dalla paura.”
Ma il vero disastro era avvenuto più a monte. Per oltre quattro ore una valanga d’acqua si era riversata senza interruzione nelle parti alte della Fontanabuona, della Val Bisagno, della Valle Scrivia, della Val Trebbia. L’epicentro di questo eccezionale fenomeno atmosferico era stato il monte Lavagnola, un “nodo orografico”, come viene definito, che fa da spartiacque tra le quattro vallate.
Più a valle c’era il sole. Ma chi, attorno a mezzogiorno, si è trovato a passare sul ponte tra la salita di San Lazzaro e Carasco ricorda di avere assistito a un fatto impressionante: nel letto del Lavagna, pressoché in secca, stava avanzando un muro ribollente alto parecchi metri formato da fango, alberi, materiali d’ogni genere. Appena dopo Carasco, poco prima di Bavaggi, il fiume in piena debordava sulla strada. La corrente impetuosa trascinava di tutto, persino una mucca, che nonostante il vorticare dei gorghi riusciva a tenere la testa fuor d’acqua.
Con la presenza del sole e col cielo senza nubi pareva impossibile che In capo alla vallata fosse capitato un disastro. Ma nel pomeriggio incominciarono ad arrivare le prime notizie. L’alta Fontanabuona è isolata, quattro operai che stavano costruendo la strada di Craviasco e si erano rifugiati in una cascina sono stati travolti da una frana. Il corpo di uno di loro sarà ritrovato dopo alcuni giorni sulla sponda del Lavagna di fronte a Pian dei Cunei, un altro addirittura a Paraggi, trascinato dalle correnti marine.
Da Gattorna in su c’è un’infinità di frane. E’ impossibile proseguire oltre Ferriere. Lungo il corso del fiume sono crollati tutti i ponti pedonali. Quello a tre arcate di Terrarossa è stato letteralmente “spogliato”: l’acqua vi è passata sopra e ha asportato la parte muraria. Soltanto gli archi hanno resistito. A Gattorna il livello delle acque ha raggiunto i dodici metri. In località Bassi una segheria è stata sventrata e macchine e attrezzature sono sparite. Il ponte in cemento armato tra Calvari e Pian di Coreglia è stato distrutto, nella cappella di San Lorenzo a Calvari l’acqua è arrivata sulla mensa dell’altare.
Dalle località più interne le notizie arrivano il giorno dopo. Da Torriglia a Gorreto è un disastro. A Ponte Scabbie un uomo e una ragazza delle località alte di Neirone che stavano trasportando con un mulo il latte delle loro stalle sono stati travolti da una frana. Stessa sorte è toccata a un contadino di Pianazzo, vicino a Montebruno. In Comune di Neirone l’abitato di Siestri è sconvolto da un cedimento. Il pianoro su cui sorge si è abbassato di un paio di metri e una grande frana lo sta minacciando da monte. Gli abitanti, poco meno di una cinquantina, vengono fatti sgomberare e devono lasciare le case.
Dopo qualche giorno, quando ci si può avventurare sulle strade dell’alta Fontanabuona provvisoriamente riaperte, si riesce a comprendere la vastità dei danni. Il paesaggio stesso appare cambiato. Le pendici dei monti sembrano graffiate da unghiate gigantesche, lungo le sponde dei torrenti non vi è più vegetazione e fin dove è arrivato il livello di piena si vede la roccia viva.
Il nubifragio e l’alluvione del 19 settembre 1953 ebbero ripercussioni anche a Genova, dove il Bisagno, straripando, aveva allagato vasti quartieri. A Chiavari invece i danni furono limitati e la città quasi non si accorse del disastro avvenuto all’interno.

Renato Lagomarsino

(Articolo tratto dal N° 33 del 12/10/2023 del settimanale “La Trebbia”)

L’alluvione del 1953 in Val Trebbia in un articolo dell’epoca

Un’immane sciagura che non conosce precedenti si è abbattuta sulla nostra vallata il 19 settembre un giorno e una data che purtroppo rimar­ranno tristemente impressi nel cuore della nostra gente. Già da qualche giorno il tempo appariva perturbato, brevi piogge si alternavano a perio­di di foschia greve e minacciosa, nella notte tra venerdì e sabato si profila­va lontano un temporale, ma fu solo nelle prime ore di sabato che il tem­po precipitò. Vampate di fulmini, schianti di tuono e poi il diluvio.. .Dalle nove del mattino fin oltre mezzogiorno l’acqua cadde violenta e impetuo­sa avvolgendo in una fosca nube tutto il paesaggio, simile ad una spessa cortina plumbea, opaca, che toglieva ogni possibilità di visione. Si tratta­va di una vera tromba marina che investiva tutta la zona ligure a partire dal litorale sino alle propaggini appenniniche della Val Trebbia ( meno imponente il fenomeno in Val d’Aveto) con un limite approssimativo che possiamo fissare nella zona di Marsaglia (a Bobbio la pioggia fu torren­ziale, ma non devastatrice).

Per valutare in dati positivi l’entità delle pre­cipitazioni, bisogna riferirsi alla notizia data dall’Osservatore dell’Uni­versità di Genova, secondo la quale in quattro ore sono caduti circa 280 mm. di acqua, corrispondenti a un quarto del quantitativo di pioggia ca­duta in un intero anno.

Questa massa imponente di acqua, caduta sulle nostre montagne è ba­stata a provocare il disastro. La configurazione naturale del bacino idrografico del Trebbia e ‘dei bacini minori (con le pareti spesso a stra­piombo e comunque fortemente inclinate), la mancanza di ostacoli natu­rali causa il generale disboscamento che ha reso nude le nostre montagne, ha fatto sì che questa enorme massa precipitasse a valle aumentando con­tinuamente la velocità e convogliando come tante valanghe nei vari tor­renti che solcano le valli laterali; questi privi di ogni regolamentazione, si precipitavano verso il fondovalle con una furia selvaggia e paurosa por­tando le loro acque limacciose nel Trebbia. Il fiume ingrossato dalla piena improvvisa uscì dal suo alveo normale e cominciò l’opera distruggitrice. Sotto gli occhi attoniti dei nostri montanari che da decine di anni non avevano più visto un simile cataclisma, la bella e riposante Val Trebbia andò accumulandosi di rovine e di lutti. La furia massima delle acque si sviluppò nella mattinata di sabato e durò fino al primo pomeriggio. I pri­mi danni notevoli si ebbero a Montebruno. Quivi 700 m. della strada na­zionale sono franati. La parte bassa del Comune stesso è stata allagata con danni ingentissimi: tra l’altro l’acqua ha investito in pieno il cimitero diveltando quindici tombe. Totalmente danneggiato l’acquedotto comu­nale. L’ondata di piena quindi proseguendo investì il primo dei due ponti nella località omonima danneggiandolo gravemente; cessato il nubifra­gio restava su questo ponte soltanto un passaggio ristretto. La corrente impetuosa intanto scalzava e sradicava ai due lati intere piante grosse e piccole, rotolava rottami e macigni, trasportando con sé ogni cosa. A Loco la massa d’acqua era tanto imponente che con gli spruzzi arrivava sul ponte di Fontanigorda, faceva crollare un baraccone e provocava altri darmi minori.

Poco più sotto irrompeva nel Trebbia in piena un affluente di destra, il Pescia che scende da Fontanigorda. Aumentata a dismisura la corrente faceva urto contro la centrale della SEEE situata dirimpetto a Loco sulla sponda destra del Trebbia e che è alimentata dalle acque del Pescia. Sotto l’impeto crollava la parte adibita ad abitazione del custode, sig.Tagani che si salvava appena in tempo. Le installazioni della centrale, la sala macchine e tutti gli impianti restavano gravemente danneggiati, per cui possono considerarsi fuori uso. Pur resistendo alla piena impetuosa subi­va lesioni e danni marginali anche il ponte di Rovegno. Il ponte in ferro di Isola resisteva alle furie delle acque, ma i tronchi d’albero impigliatisi nel­le travature metalliche spostavano alquanto il piano del ponte. Un salva­taggio in extremis dovette essere compiuto nella casa con annesso mulino di Isola di Rovegno. Appena l’ultimo occupante ebbe abbandonato l’abi­tazione, questa crollò sotto l’impeto del fiume. Nei pressi della Barachina ha fatto le spese della piena improvvisa anche il cantiere della Ditta Care­na che stava costruendo il ponte di Fontanarossa: installazioni parte divelti e trascinati a basso. Il paese di Gorreto anche questa volta è la zona più martoriata. Il Trebbia, dopo aver rotto una parte dell’argine costruito sul­la sinistra del fiume, è entrato nella piazza e nelle case del paese. L’argine crollato in parte, era di nuova costruzione in cemento, eretto apposita­mente per difendere il paese dalle piene. Il vecchio argine che si dice sia vecchio di 400 anni ha resistito. 11 fiume ha asportato una ventina di metri di strada che univa il ponte al paese. Il ponte stesso ha resistito pur suben­do danni sensibili. La piazza principale del paese è diventata un lago e l’acqua si è infiltrata nel pianterreno delle case, asportando o deterioran­do tutto quanto trovava. Il tratto di terrapieno che corre fra i due agglo­merati di Gorreto per un tratto di 200 metri è sprofondato e diventato impraticabile.

Nell’albergo Miramonti l’acqua aveva un’altezza di 5 metri; la casa vecchia sempre di proprietà dell’albergatore Garbarmi Ivo è stata danneg­giata ancora più gravemente, tra l’altro è crollata la terrazza trascinando con sé anche il materiale che vi era al coperto.

Da Ottone si segnalano danni gravissimi alla centrale elettrica e al ponte in ferro che mette in comunicazione le due sponde. Devastate sono pure le due centrali della SEEE, poste dirimpetto l’una dell’altra nella zona di Losso. Le acque invasero rapidamente i locali delle due centrali rendendo inservibile gran parte delle attrezzature. Più a valle venne asportato il ponte metallico di Ponte Organasco; le installazioni metalliche furono tra­sportate sino al ponte di Lenzino che resistette all’urto subendo però dan­ni notevoli. Questa era la situazione terrificante verso le 13 del pomerig­gio, quando, ormai schiaritosi il cielo, l’ondata di piena investiva il ponte di Marsaglia. Numerosi marsagliesi, assiepati all’imbocco del ponte, sta­vano osservando l’acqua torbida salire oltre i limiti alti delle marginature ed estendersi ed allagare le colture, gli orti, travolgendo e schiantando ogni cosa, quando il ponte, sommerso dalla massa d’acqua che giungeva sopra le chiavi delle cinque arcate sembrò dare degli strani tremiti come se qualcosa alla sua base s’inclinasse. Furono le prime avvisaglie: avvisaglie davvero provvidenziali, perché proprio in quel momento un autocarro (un altro autocarro era transitato sul ponte una decina di minuti prima che accadesse la impressionante rovina) stava sopraggiungendo, e il suo conducente ebbe appena il tempo di fermare l’automezzo e di rendersi conto del grave pericolo che avrebbe corso se avesse proseguito la marcia. Qualche minuto dopo, infatti, il ponte (lungo una ottantina di metri) co­minciò a traballare, a scuotersi tutto. Ad un tratto l’ossatura del ponte si frantumò e si contorse, poi, la struttura dei piloni e delle arcate fu presa dalle spire irresistibili della valanga. Un rombo sordo sconvolse la super­ficie del Trebbia, s’alzarono vortici impetuosi e tutto si concluse in un boato spaventoso come se sotto il letto del fiume si fosse aperta una tremenda voragine.

Quando la superficie dell’acqua tornò a livellarsi, le cinque arcate del ponte di Marsaglia erano scomparse, trascinate, inghiottite dai gorghi. Non restavano che monconi brevi delle testate e le poche pietre del para­petto spezzato. Il fiume aveva trascinato giù, nell’ondata della sua ecce­zionale furia, il pietrame, aveva abbattuto e rasi al fondo del Trebbia i massicci piloni. Nel frattempo la corrente aveva strappato e spinto via metà della casa del fabbro Luigi Peveri, d’anni 57, situata poco sotto l’im­boccatura del ponte, trascinando con sé le suppellettili della cucina e del­la camera da letto. A Marsaglia il Trebbia investiva e asportava in parte anche le installazioni del frantoio dell’Anas.

Bobbio che era stata investita soltanto dagli scrosci marginali dell’uragano ebbe la sensazione del cataclisma soltanto poco dopo mezzogiorno, quando la vasta e limacciosa corrente si distese per tutta l’ampiezza del greto occupandolo da un capo all’altro. I cittadini si ammassarono curiosi contro le spallette della circon­vallazione, mentre un gruppo di giovani alquanto temerari si inoltrava su ponte vecchio, per godersi più da vicino lo spettacolo emozionante.

La piena continuava ad aumentare a vista d’occhio, investiva le poche alberature marginali, mandava una bava d’acqua fin nel Borgo, mentre sulla sponda opposta penetrava fino alla fornace, invadendo di terriccio la fonte Pineta. A S. Martino l’acqua entrava nel vivaio della Forestale, asportava il casotto e le altre attrezzature devastando tutta la zona; com­pletamente sommersi gli orti posti di fianco al terrapieno della stradale; l’acqua invadeva pure il mulino di S. Martino provocando danni notevo­li. Ma la visione più terrificante era nei pressi del ponte Vecchio: gigante­schi cavalloni di acqua si frangevano contro la lunga fiancata del ponte, facendo vortici intorno ai piloni e infilandosi tumultuosamente sotto le arcate.

L’acqua limacciosa, passando sotto gli occhi dei bobbiesi rivelava di tanto in tanto il suo drammatico bottino: un fornello a gas, un troncone d’albero schiantato, una sedia, bidoni di catrame trascinati via dal greto alto del fiume, travi, legname da fabbricazione, qualche mobile, botti vuote, sagome nere, tralicci di piante, una grossa quantità di legname che qual­cuno sfidando la minaccia dei flutti, s’affrettava a trarre a riva.

Più a valle, perdendo un po’ della sua velocità, provocò danni soltanto di minore entità, se si eccettua l’allagamento della parte bassa di Rivergaro con danni ai negozi e ai depositi.

Dopo le due del pomeriggio la piena, raggiunto il massimo, comincia­va rapidamente a decrescere, mentre giungevano le prime tristi notizie della Valtrebbia. Nel pomeriggio stesso di sabato si recarono sui luoghi colpiti il vice Prefetto di Piacenza, ,dr. Prestamburgo, l’on. Marenghi, ac­compagnato dal Direttore del Consorzio Agrario dott. Stradiotti, l’ing. Rinetti del Genio Civile ed altre personalità.

Accorreva pure a Marsaglia la Polizia e si prendevano i primi provve­dimenti per fronteggiare la situazione. Lungo le rive intanto ferveva l’opera dei raccoglitori di legna che il “Trebbione” aveva trascinato a valle in quan­tità enorme. Grosse piante di pioppo con le loro radici stavano ammuc­chiate alla rinfusa intorno ai piloni del ponte Vecchio emergendo a mano a mano che la corrente calava; un’ingente quantità di legname era stata spinta dal fiume sui prati del Borgo.

(Articolo tratto dal web)

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