Come si cucina la torta di patate nel territorio di Santo Stefano d’Aveto

Non si può dire una cosa per scherzo, che subito la gente la prende sul serio. Così chi incautamente nel dicembre scorso ha scritto su questo giornale che aveva una ricetta particolare per la torta di patate, adesso si trova costretto a spiegarla a tutte le donne.
Direi che la cosa, per uno che stenta perfino a cucinare un uovo al tegamino, sì presenta come un’impresa ardua, se non ridicola. Quindi non pretenderò di darvi una ricetta con tutti i crismi delle dosi, dei modi e dei tempi, ma tenterò bene o male di descrivere il modo in cui questa prelibatezza viene preparata al mio paese. E se provandola in cucina ne sarà venuta fuori una vera schifezza, la colpa non sarà né vostra né della vivanda (che è veramente gustosa), ma solamente di chi in questa pagina non sarà riuscito a spiegarvi come si prepara.
Occorre precisare che quella che sto per descrivervi è la torta di patate di S. Stefano -capoluogo, molto diversa da quella che si cucina in diverse frazioni della Val d’Aveto, dove viene chiamata anche “baciocca”: una squisitezza pure questa, ma alquanto differente.
Venendo al dunque, occorrono anzitutto le patate. Circa la quantità fate voi: io direi che grossomodo per tre-quattro persone ne occorrono un po’ più di un chilo. Però ci vogliono quelle di S. Stefano.
Alt, direte voi, dove le andiamo a scovare? Premesso che sul luogo ne vengono prodotte centinaia di quintali, ammetto che forse ho peccato un po’ di campanilismo, perché tutti i montanari ritengono che le patate del proprio paese siano sempre le più buone. Infatti, sia che voi abitiate a Coli, Cerignale, Ottone, Rovegno, Romagnese, Zerba o Vicosoprano, sarete senz’altro convinti che le vostre siano insuperabili, per cui usatele pure tranquillamente. Ma almeno utilizzate una qualità che sia gustosa e non venga dal supermercato: la migliore sarebbe senz’altro la quarantina genovese (ormai quasi introvabile), ma io direi che anche la Kennebec o la Monalisa possono andar bene.

Dopo questa lunga e inutile dissertazione sulle diverse varietà (tanto ognuno userà quelle che si trova a portata di mano), prendiamo le nostre patate, sbucciamole e mettiamole a cuocere in abbondante acqua salata.
Mentre esse cuociono prepariamo un soffritto di olio e cipolla tagliata sottile, aggiungendo, se vogliamo, un po’ di ciccioli di maiale tritati minutamente. Quando le patate sono cotte scoliamole e pestiamole bene nella stessa pentola con un pestello di legno (si possono anche schiacciare in un moderno passapatate, ma non tutti i buongustai sono d’accordo). A quest’impasto aggiungiamo abbondante parmigiano grattugiato e il soffritto che abbiamo appena preparato. Che cosa è venuto fuori? Un pastone che si può mangiare anche così e che noi chiamiamo prebuggiun.
Per non scandalizzare i puristi aprirò una parentesi precisando che sui nostri monti il prebuggiun non è esattamente quello che s’intende a Genova. Quello genovese dicono che tragga le sue origini dai tempi delle Crociate, quando il comandante supremo dei soldati cristiani Goffredo di Buglione, particolarmente ghiotto di un piatto composto di una moltitudine erbe, incaricava i soldati di andarglierle a cercare. I poveri militi, deposte le loro pesanti armature, invece di combattere gagliardamente per la fede, girovagavano come servette nei prati intorno a Gerusalemme, cercando tutto il giorno le erbe per Buglione, o “pre-Buggiun” come dicevano i crociati genovesi. Il nostro prebuggiun invece è fatto solo di patate e anche l’origine del suo nome dev’essere senz’altro meno nobile, derivando forse semplicemente dal verbo “prebugge”, che vuol dire bollire-prima o bollire-molto.
Prendiamo dunque questo impasto ben amalgamato e stendiamolo su una teglia (preferibilmente di rame) del diametro di circa 35 centimetri con il bordo molto basso, dopo che il fondo sarà stato unto con olio di oliva e ben cosparso di pane grattugiato. Stendiamo, pressiamo, insomma facciamo stare il nostro prodotto nella teglia. Se i conti sono giusti dovremmo ottenere uno strato spesso circa un centimetro. Direi che questa è l’altezza massima, perché questa torta è tanto più gustosa quanto più è sottile e croccante.
Dopo averla ben lisciata e spianata con le mani, col dorso di una forchetta tracciamo la superficie superiore con una riga lungo la circonferenza e con dei raggi che vanno dal centro ai bordi, come un sole. Questi fregi non hanno una funzione puramente decorativa, ma sono fondamentali per rendere la superficie più increspata e croccante.
Adesso inforniamo la teglia nella nostra cucina a temperatura di circa duecento gradi e lasciamola per circa tre quarti d’ora.
Se abbiamo un forno a legna tanto meglio: mettiamocela dopo avervi cotto il pane, e lasciamocela fin che non è cotta.
E… quando sarà cotta? Quando la nostra opera avrà raggiunto un bel colore dorato e la torta avrà due bei strati croccanti sopra e sotto, con in mezzo una sottile zona più morbida.
Tiriamola fuori, stacchiamola dalla teglia facendola scivolare su un grosso tagliere, dove con un coltello la taglieremo a strisce obli­que in modo che ve vengano fuori dei bei pezzi a forma di rombo.
Dopo di che mettiamoci a tavola e mangiamola subito.
Piaciuta? No? Forse è venuta floscia, carbonizzata, o semplicemente disgustosa: gettiamo il tutto alle galline e andiamo al ristorante, sperando che la prossima volta si presenti meglio.

Alcune fondamentali raccomandazioni:
– La torta di patate va mangiata appena tirata fuori del forno, quando è bella calda e croccante. Per questo bisogna programmare la sua preparazione in modo che sia pronta esattamente per l’ora di pranzo o cena. (Per questo motivo è molto difficile, ammesso che la sappiano fare, trovare questa specialità nei ristoranti della Val d’Aveto).
– È assolutamente vietato l’uso di uova o di qualsiasi tipo di sfoglia. Se le usiamo ne verrà fuori un polpettone, un timballo, uno sformato, un budino o qualcos’altro, ma non venitemela a chiamare torta di patate. Assolutamente da evitare anche aglio, prezzemolo o altri gusti. La superficie superiore non va cosparsa né con olio, né con formaggio, né con pane grattugiato né con altra diavoleria che venga in mente alla massaia. Va soltanto rigata con la forchetta.
– Se ne avanza (cosa molto difficile, se l’avete fatta come si deve) datela tranquillamente al vostro maiale, perché il giorno successivo non sarà più la stessa.
– Nel soffritto non mettete troppo olio, perché la caratteristica della torta di patate non deve essere l’untuosità, ma la croccantezza.

Io i miei consigli ve li ho dati. Ciò che non posso darvi sono le mani magiche, l’amore e l’esperienza di mia mamma. E sono questi, ve lo assicuro, gli ingredienti più importanti.

Cristoforo Campomenosi

(Articolo tratto dal N° 13 del 29/03/01 del settimanale “La Trebbia)

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