I Pastorelli delle Alte “Val Trebbia, Staffora, Scrivia ed intermedie”

La storia di un a Paese a volte è fatta non solo da menti colte, studiosi o grandi personaggi, ma anche da soggetti quasi analfabeti, ragazzini del popolo, ragazzini che aiutavano la famiglia nella stagione buona, per poi avere il necessario per passare la brutta stagione, l’inverno, che nella valle che dalla grande pianura porta al mare, era alquanto lungo e freddo.

Per guadagnare poche lire, che allora però erano necessarie alla sopravvivenza, giovani ragazzi, ed a volte anche giovani ragazze, portavano al pascolo mucche o capre o pecore anche per conto di chi era più fortunato di loro.

Chi possedeva delle mucche o capre o pecore, ed aveva figli in giovane età, appena la stagione lo permetteva e ed i prati si rinnovavano, li portavano giornalmente al pascolo, nelle vicinanze, tra le sponde di fossi e torrenti, in praticelli raggiungibili facilmente, tra boschi e radure conosciute.

I piccoli pastori stavano fuori casa tutto il giorno, facevano la guardia alle loro bestie, a volte aiutati da qualche cagnolino che faceva loro anche compagnia.

All’alba essi partivano con mucche e vitellini, nel tascapane non mancava quasi mai il formaggio fatto in casa o la frittata fatta dalla mamma con le uova fresche del piccolo pollaio, a volte qualche tocchetto di lardo o pancetta per chi poteva permetterselo. L’acqua da bere non mancava alle sorgenti dove c’era spesso anche l’abbeveratoio per gli animali. Il loro corredo comprendeva l’immancabile bastone, quasi sempre di nocciolo, un coltello, qualche panno in cui erano avvolti i viveri nel tascapane, il cappello per ripararsi dal sole, per i giorni più freschi il giubbetto di panno.

I piccoli pastori non si annoiavano, anzi, non si potevano annoiare o distrarre e più le bestie erano numerosi e più l’attenzione era necessaria per evitare inconvenienti, il vitellino che si allontanava troppo dal gruppo, la mucca che golosa di tenero fogliame, si inoltrava troppo nel bosco o nelle sponde scoscese, qualche animale selvatico a cui non piaceva essere disturbato nel suo ambiente ed allora poteva spaventare le bestie al pascolo, motivi vari ed imprevedibili ed il pastorello doveva sempre vegliare, cosa non facile nelle calde giornate estive.

Poi alla sera ritornavano a casa riportando gli armenti al sicuro nella stalla o nel recinto, ed insieme alle bestie normalmente era loro dovere portare a casa anche un po’ di legna, quella che trovava lungo il torrente o nel bosco, piccoli rametti quelli che sarebbero serviti poi ad accendere il fuoco nel camino o la stufa dove la mamma avrebbe cotto la cena per tutta la famiglia, si perché la famiglia si riuniva solo alla sera, e il piatto caldo, le frittelle con le ortiche o i fiori di sambuco, il pane fritto nello strutto ed un sorso di vino era la più bella cosa per chiudere la giornata e prepararsi al riposo, riposo che sarebbe durato solo fino al canto del gallo, poi i nostri ragazzini avrebbero ripreso la strada dei pascoli.

Questi nostri pastorelli giornalieri erano fortunati però, essi avevano a sera il calore della famiglia, la sicurezza della casa ed una stalla per le bestie in caso di brutto tempo, si fortunati, poiché c’erano dei loro coetanei che facevano il Pastorello, diciamo così, di professione, erano Pastorelli stagionali, pastorelli in affitto.

Essi portavano in alpeggio da aprile/maggio a settembre, armenti per conto terzi, una responsabilità che costringeva a diventare adulti già quando si era ancora adolescenti, essi restavano fuori casa per mesi, da quando insieme ad altri pastori portavano in quota le mandrie.

Non ci si improvvisava Pastorelli, lo si apprendeva ora dopo ora, giorno dopo giorno, per settimane e poi mesi, ma alla fine della stagione si era “cresciuti” nel vero senso della parola. In quel periodo il tempo scorreva più lento, portare in alpeggio tutto il necessario , approvvigionamento di viveri ed altro avveniva tutto a dorso di mulo o asino, per cui il pastore adulto, il responsabile in primis della mandria, doveva assentarsi spesso ed allora il pastorello restava solo fino al ritorno del pastore, essi restavano soli, con le mucche, vitelli e vitellini, e i compiti che per i pastorelli giornalieri terminavano a sera, per loro erano continui, ma chi faceva il pastorello stagionale era cosciente e coscienzioso, sapeva far fronte a molti imprevisti, sapeva stare da solo, in compagnia con il suo solo amico ed aiutante, il suo cane.

Il tempo trascorreva lento, ed i giovani pastori erano troppo giovani per dimenticare che esisteva anche il gioco, ed allora ogni occasione che capitava era gioco, come correre dietro ad un vitellino, cantare a squarciagola per provocare l’eco, prendere il coltellino e con un ramo di sambuco costruirsi, come gli aveva insegnato il nonno, uno zufolo, soffiarci dentro e vedere lo stupore degli animali a quel suono strano e diverso.

Con il tempo imparava a conoscere uno per uno tutti i vitelli, le mucche, i vitelloni della mandria, imparava dove erano i confini dei pascoli assegnati, dove c’erano gli abbeveratoi e quando portare i capi all’abbeverata, a chiamare le mucche per nome o con un fischio o con la voce, giorno dopo giorno diventava un uomo, un giovane uomo ma capace di portare a casa alla fine dell’alpeggio, un piccolo ma importante gruzzoletto che avrebbe contribuito a sfamare la sua famiglia nel lungo inverno della valle che dalla grande pianura porta al mare.

(Da “Leggenda di una Storia” di Gino Buonanno)

Scultura su Lastra in Pietra Serena, (Dedicata)

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