L’estate a Fascia

– Quanto è bella l’estate a Fascia – gli aveva mandato a dire Bisagno a fine luglio. – È bella, ma sarà anche dura.
Fascia è uno dei rari lembi della Liguria dove il profumo del faggio rimpiazza in modo definitivo quello del castagno. I castagni terminano cento metri più sotto. Quassù, a Fascia, solamente faggete e betulle, che s’arrampicano fino alla Casa del Romano: il valico verso la Val Borbera e il Piemonte.
Esaltante il profumo, splendidi i prati e i boschi. Fiori variopinti nell’erba verde, ottima pastura per le mucche, i cui campani interrompono di tanto in tanto il silenzio, il grande silenzio dei monti e delle valli, che qui sembrano convergere d’ogni lato.
C’è calma, c’è tranquillità stasera a Fascia! Come si dorme bene, nella camera dall’impiantito ruvido e tarlato, nel letto antico, che i partigiani riservano ai capi del governo clandestino. Prima della mezzanotte un ronzio d’aereo rompe il gran silenzio. Niente paura: è il velivolo dei lanci, dei provvidenziali aviolanci che portano, finalmente, armi, munizioni, equipaggiamenti.
Attorno al fuoco, davanti all’osteria, i partigiani cantano. Marinin mesce il vino, con parsimonia. Ci sono, qua e là per terra e sulle panche, grosse caraffe d’acqua gelata della vicina fonte. Guido vigila in cucina. E Mario sui capi del CLN. In un angolo Elvio, il ragazzino, tuba con la piccola Aurelia.
Perché sono sbarcati a Salerno? – la domanda retorica è d’un giovane, che pontifica saccente: – questo fu l’errore. A Civitavecchia dovevano sbarcare, avrebbero fatto fuori tre divisioni tedesche.
– La vuoi piantare? Salerno, Civitavecchia, Salerno… Non c’è altro nella tua carta? Allora è una carta per il cesso. L’avrai già ripetuta cento volte questa litania. Abbiamo resistito, ora dobbiamo vincere, e vincere significa arrivare a Genova, liberarla.
Genova: la magica parola era stata pronunciata.
Dalla stanza Pittaluga avvertiva il silenzio che ne era subito seguito: greve, carico di tensione. Immaginava venti, trenta occhi fissi sull’archivolto antico, di là dal quale s’apre, nella pallida luce stellare, l’orizzonte. Dopo due, tre catene di monti, in quella precisa direzione (quante volte era stato detto, commentato, ripetuto) sta la città. Il miraggio. L’ultima mèta non solo della strategia dei partigiani, ma anche delle speranze, dei desideri, dei sogni di ciascuno di loro.
Pittaluga conosceva il rischio di chi, come lui e i suoi colleghi del CLN, si spostava dalla cospirazione in partigianeria e viceversa.
Perché nello Stato partigiano non si usavano e non potevano usarsi molti degli espedienti della clandestinità. Mentre gli spioni c’erano, rari, uccisi non appena individuati, ma purtroppo, qualcuno sempre ne sopravviveva: e inviava precise, dettagliate denunce alla città, dove, per incontrarsi, decidere e dirigere, erano costretti ad aggirarsi, come in una trappola, i cospiratori.
Pittaluga sapeva tutto ciò, ma comprese, durante il silenzio di quella sera a Fascia, un tormento acuto e pungente che, fra le tante sue sofferenze, per lui non c’era.
Il villaggio era al centro del fronte di guerra: un fronte senza inizio e senza termine, senza prima, né seconda linea, senza salienti né punti d’appoggio. Un fronte che varia di notte, di giorno, da un’ora all’altra, incoercibile, inafferrabile.
A Fascia arrivano ora dei feriti da curare dalla Val Borbera, ora degli operai delle fabbriche del Polcevera, ora dei morti da seppellire dai monti di Bobbio, ora da Genova dei capi del governo clandestino, ora dei fascisti catturati a Rapallo, ora da Piacenza delle spie a riferire, ora da Tortona dei falsi partigiani a spiare, ora da Sestri renitenti alla leva da inquadrare, ora dall’autostrada dei prigionieri tedeschi da barattare, ora dei nostri che erano prigionieri e sono stati barattati. Uomini che arrivano e uomini che partono. Vivi o cadaveri. Talvolta vivi arrivano e cadaveri ripartono, perché già feriti o perché già condannati.
Nel centro della guerra giungono i rumori della guerra; gli spari, gli scoppi, i crepitii della mitraglia, i boati delle mine che saltano, e le urla, i lamenti dei feriti: tutto all’improvviso si sente e altrettanto all’improvviso si cheta. Basta che un combattimento si sposti dietro lo spigolo della montagna, che la barella superi la svolta della mulattiera.
Questa è Fascia: questa e tante altre cose ancora. Deposito di smistamento del materiale aviolanciato. Stazione radioricevente e trasmittente per gli alleati di là dai monti e dal mare.

(Brano tratto da “Pittaluga racconta – Romanzo di fatti veri 1943-45” di Paolo Emilio Taviani – Edizioni il Mulino)

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