Caproni. La terra bifronte.

Le famose crose del Genovesato, con teste di viva ghiaia marina inca­stonate nel suolo, con in mezzo il tap­peto rosso di mattoni conficcati di costa per non scivolare durante la macaia…”, mi fermo qui per osservare come questa semplice descrizione di un caratteristico elemento del pae­saggio ligure sia non solo un esempio di accurata precisione, ma un piccolo gioiello di scrittura: la crosa è de­scritta come un’opera di vero artigia­nato, come fosse intagliata, a detta di parole come “incastonate” e “confic­cati”, ma ha anche una sua vivace surrealtà con quelle “teste di viva ghiaia” e “il tappeto di mattoni rossi”; tutto molto colorato e vivace, una terra che non dimentica il mare (la “viva ghiaia marina”), e tutto con una funzione di utilità (non scivolare) e non una sem­plice finalità estetica.

Più ci ripenso e mi gusto questa frase più la trovo davvero un capola­voro, come interpretazione – anche allegorica – di gran parte del paesag­gio ligure, dove si intrecciano esat­tezza, misura, vivacità di colori e uti­lità, con un esito leggero e predisposto alla trasformazione metaforica, come il mattone che diventa tappeto.

Chi scrive è Giorgio Caproni, pre­sentando nel 1962 per un’enciclope­dia il paesaggio ligure, e si legge ora nel bel libretto “Segreta Liguria”, curato da Giovanni Meriana e voluto dalla Comunità Montana Alta Val Trebbia, appena edito dalla Sagep, che pre­senta sei articoli (anni 1949-1962) di­spersi del grande poeta : sarà presen­tato il 17 agosto alle 17.30 alla Badia di Tiglieto, mentre il 12 agosto a Fontanigorda si inaugura un piccolo museo con pannelli e video sul rapporto di Caproni con la sua valle.

Grande davvero, come ci mostra quel mucchietto di parole, da cui siamo partiti, in uno scritto che l’au­tore probabilmente valutava come se­condario, rispetto a molti altri suoi testi, ma uno scrittore “doc” è sempre tale, sia in abiti di festa, sia in vesti do­mestiche. In questo libro Caproni ci guida nella sua Liguria, “terra bi­fronte”, ci tiene a dire, di mare e di monte: nel primo pezzo è la riviera di Levante a prendere la scena. Una luce che (montalianamente) abbaglia e il “solvente” della salsedine sono com­pagni e antagonisti del gusto umano del costruire case coloratissime; suc­cessivamente Una verde clausura ci porta nell’interno nell’amatissima Val Trebbia (e in Val d’Aveto) in “un mare di silenzio immenso, e ben si po­trebbe dire un mare pietrificato”, pen­sando al susseguirsi dei monti, con case di “nuda pietra cariata” e dove “il verde è più che mai verde”. E nel “reli­gioso” di questi boschi erano – anni cinquanta – possibili incontri con vec­chi saggi che intendevano ancora quelle due o tre valli come il mondo (vedi “Cosmografia e saggezza”). Gli altri tre pezzi sono propriamente ge­novesi. Uno, scherzoso, al passato, de­scrive l’Acquasola dell’Ottocento, gio­cando a rimpiattino con la pomposa scrittura della celebre Guida dell’Alizeri; l’altro, in un presente-futuro, è una visita all’acciaieria di Cornigliano (1959), alla città di ferro e fuoco. E’ l’occasione di un affondo polemico con la non amata Roma (dove vive), barocca, arrotondata, “transigente”, mentre lo stabilimento siderurgico, dove ogni movimento è esatto e non lasco, pena “lo sconquasso”, riporta in pieno al gusto della precisione e dell’esattezza da cui siamo partiti, ad un sentimento di aut-aut, inferno o paradiso, che Caproni vede nei suoi li­guri, tagliati con accetta, sobri e re­frattari al compromesso, liguri a sua immagine, si potrebbe aggiungere.

A questo riguardo Chiese e chiesine attraverso un sopralluogo nelle “buie conchiglie” delle chiese del centro storico, tra i vicoli “intestinali” dove si digerisce la “mercanzia” in “lucro” è l’occasione di un piccolo saggio antro­pologico sul genovese, che prega – essenzialmente – per fare soldi.

E questo non fa assolutamente scandalo per il “genovese” Caproni, anzi è come la garanzia che “il lucro è opera sommamente civile”, in quanto avarizia e accumulo dei genovesi sono come “un provvidenziale freno e cor­rezione allo spirito sperperane, in linea di massima, di noi italiani”. In questi tempi di biechi regionalismi, varrebbe la pena di meditare su una frase come questa che – giusta o sba­gliata non importa – integra perfetta­mente regione e nazione, in mutuo soccorso, e non in vacua polemica.

Come già si sarà inteso un vero pia­cere di questa lettura sta nel tratto sempre molto arguto della prosa di Caproni, così a suo agio nei paradossi e nel metaforeggiare leggero e multi­plo, per cui – che so – Cornigliano è sia “un poema in azione” che una “cu­cina” (piuttosto che una fucina), basti questo esempio sul vecchio saggio si­lenzioso da tempo: “doveva avere il fornello vocale spento, se ora faticava tanto a far bollire un pò di fiato dietro quei due denti e a farlo traboccare in parole”. Il vantaggio di Caproni, anche su Montale, in termini di pae­saggio, sta nella sua capacità di tenervi fede e farlo lievitare “come in allego­ria” e non inchiodarlo ad un perento­rio correlativo oggettivo, come per ri­manere in tema, la crosa da cui siamo partiti, per Montale emblema di una vita obbligata, come sappiamo.

Stefano Verdino

L’autore. Maestro di versi.

Nato a Livorno il 7 gennaio del 1922 e morto a Roma il 22 gennaio del 1990, quando aveva 10 anni Giorgio Caproni si trasferì con la famiglia a Genova, dove studiò anche musica e ottenne il diploma magistrale. Nel 1935 iniziò a insegnare come maestro elementare in Val Trebbia, una terra che sarebbe rimasta nel suo cuore. Il poeta, critico e traduttore è sepolto con la moglie Rosa Rettagliata, la Rina delle sue poesie, a Loco di Rovegno

(Articolo tratto da Il Secolo XIX del 12/08/2009)

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