Le passeggiate quotidiane di Giorgio Caproni rivisitate a tredici anni dalla scomparsa

Orsù, Muse canore, così invocate sia per la natura del vostro canto, sia per essere voi della stirpe musicale dei Liguri, ponete mano con me alla favola…” Così si esprimeva Platone nel Fedro circa 2400 anni fa: che le Muse abbiano nutrito schiere di musici e di poeti nati o vissuti in Liguria non occorre ricordarlo. Montale, Campana, Sbarbaro e Caproni sono le punte d’eccellenza tra i contemporanei nel campo della lirica.

Tredici anni fa, il 22 Gennaio 1990, scompariva Giorgio Caproni, originario di Livorno, ma che ha frequentato a lungo l’Alta Val Trebbia, prima come maestro a Rovegno, in seguito come partigiano (“senza sparare nemmeno un colpo”), poi come commissario (“qualcosa come sindaco” diceva lui stesso) del Comune di Rovegno, nonchè unico insegnante a Loco durante il secondo conflitto mondiale (1944-1945), infine come villeggiante nei mesi estivi.
Il poeta è tumulato nel piccolo cimitero di Loco accanto alla moglie Rina Rettagliata, originaria della stessa località, che Caproni conobbe nell’estate 1937 e che sposò nell’Agosto 1938. Non è questa la sede per compiere una disamina della produzione letteraria di Caproni, legata al territorio, prima e “dopo Gorreto, al Nord della Liguria”. A me preme unicamente riportare all’attenzione del lettore alcuni percorsi abitudinari e familiari, che il poeta era solito compiere durante le sue vacanze estive, ricalcandone i passi nei dintorni di Loco e di Rovegno come un semplice pellegrino, che si muove sulle sue orme non solo in senso figurato, ma anche fisico.
Una prima breve passeggiata si può compiere da Loco di Sotto alle Ghiaie, il piccolo parco-giochi del paese, attrezzato anche per attività sportive, sulla sponda sinistra della Trebbia, di fronte alla confluenza di questo fiume con il torrente Pescia. E’ questo il percorso che Caproni solitamente compiva al mattino, leggendo un libro o il giornale, acquistato presso il bar del signor Ferruccio Poggi: un cammino facile e distensivo, dapprima pianeggiante, che permette appunto di non prestare eccessiva attenzione a dove si mettono i piedi. Il poeta giungeva alle Ghiaie verso le dieci, s’accomodava sopra una panca, appoggiava il giornale sopra a un tavolaccio all’ombra dei grandi tigli o sub tegmine fagi (proprio qui sorge uno degli esemplari più belli di faggio della valle) e infine, tornava verso casa per l’ora di pranzo. In tasca solitamente teneva un bloc-notes e una penna pronti per l’uso. La mattinata estiva del Caproni villeggiante trascorreva così in compagnia della lettura. Alla rielaborazione poetica dedicava generalmente le ore della sera e della notte, ma traeva ispirazione dalle occasioni che gli offrivano il paesaggio e la natura. Le intenzioni nascevano quindi “sul campo”.
Un cammino di media lunghezza consisteva nel recarsi a Rovegno, nella frazione Zerbo, dove abitava l’amico Virginio Barbieri, spesso al lavoro nel suo orto, contiguo alla casa. Caproni chiamava quel piccolo appezzamento di terreno “l’orto della fraternità e della felicità”. C’è ancora la panchina dove si metteva a sedere, sorseggiava il caffè o un bicchiere di vino e trascorreva momenti di tranquillità. Alcune liriche sono state concepite proprio qui. Una di queste è Guardando un orto di Liguria, dedicata agli amici Albino e Giulietta Barbieri e inserita nella raccolta RES AMISSA, pubblicata postuma da Garzanti nel 1991. La signora Giulietta, moglie di Albino Barbieri, fratello di Virginio, la quale mi ha fornito la varie notizie qui riportate, mi ha pure riferito, tra l’altro, che il cognato, ormai scomparso, custodiva gelosamente qualche copia di prima mano delle poesie nate nell’orto.
Infine l’escursione, che il poeta probabilmente sceglieva quando non voleva vedere nessuno, che si può compiere da Loco di Sotto muovendosi in direzione del Casone, dove troviamo per l’appunto un cascinale e ampie radure. Di qui il pedone può proseguire per il bosco della legnaia sulla Costa della Surìa. La stradina, in stato di abbandono, ormai poco o nulla praticata , conserva tuttora un suo fascino, sebbene le fasce circostanti, lungo il primo tratto, siano ormai da tempo coltivate a fieno e non più a cereali. Questo sentiero romito, spesso incavato nel suolo e pietroso, sembra rispecchiare perfettamente il carattere schivo e spigoloso del poeta. Qui difficilmente incontri qualcuno e ti ritrovi in balìa di te stesso, della tua finitezza, ma ti accorgi ben presto che, come per incanto, il confine tra immaginario e vero, tra possibile e certo si è fatto labile, quasi che anche l’Assoluto preferisse abitare nell’ambiguità e si servisse di quei prodigi che sono il cielo, il vento, la luce, le ombre, le acque, gli alberi, immuni in questi luoghi dai tentacoli dell’indagine scientifica, per sconvolgere le carte dei tuoi schemi mentali di uomo del 2000. Sei costretto per forza a lasciarti irretire dalla natura, che si presenta come il regno degli opposti, capace di dissolvere nel sogno la tua esperienza del reale e di farti cogliere nello stesso tempo le pulsioni del tuo io più profondo, la tua stridente eccezionalità di essere umano, catapultato senza tua colpa o merito tra le boscaglie di un mondo, “terra di nessuno”, rovistata solo da qualche guardiacaccia e “franco cacciatore” braccato, preda e predatore insieme.
La poesia diventa allora un giocare d’anticipo sugli eventi nel regno degli opposti, scoprendo, al di là del regno dove tutto è confuso e tortuoso, “il Regno dove tutto è puro”, già presente liricamente nell’al di qua, quasi che l’enunciazione del Vangelo “se il granello di senape non muore, non dà frutto” dovesse valere come monito e come viatico del poeta anzitutto in questo posto nebbioso, assurdo, vuoto, che è la vita.
Questo intende appunto il Caproni nella sua breve lirica “Per le spicce”.

L’ultima mia proposta è questa:
se volete trovarvi,
perdetevi nella foresta.

Dio stesso sembra quindi che possa essere in qualche modo raggiunto soltanto attraverso la sua negazione, la quale passa anzitutto attraverso la negazione di noi stessi.
Certo la lirica di Caproni, aggrovigliata, scarna, essenziale, ma nello stesso tempo accattivante, non poteva sbocciare se non in queste selve, in queste radure: momenti magici, occasioni uniche, capaci di risolvere per un istante le contraddizioni generate dal perenne conflitto tra la vita e il suo contrario, tra il tempo e l’eternità.

Piero Campomenosi

(Questo articolo è stato tratto dal N° 23 del 13 Giugno 2002 del settimanale “La Trebbia”)

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