Fiumana bella”. Con questa definizione il Sommo Poeta accenna, nel XIX canto del Purgatorio, al corso del torrente che scorre in Fontanabuona. E lo riferisce ai Fieschi, affermando, per bocca di Papa Adriano V (Ottobono Fieschi), che essi trassero origine da questa valle ed ebbero la qualifica di “Conti di Lavagna”.
In realtà, anche se per il tratto terminale del torrente è prevalsa, in epoca relativamente recente, la denominazione di Entella, fino a poco più di due secoli fa l’intero suo corso era chiamato Lavagna. E Lavagna è anche il nome del borgo d’antica origine nato e sviluppatosi non lontano dalla sua foce.
Ma perché Dante ha usato una definizione così particolare unendo al sostantivo “fiumana” l’aggettivo “bella”?
I commentatori della Divina Commedia sembrano concordi nel dare a “fiumana” il significato di corso d’acqua impetuoso. Però potrebbero essere in errore. Prima di tutto per la presenza dell’aggettivo “bella”, che certo non si addice alle acque impetuose e limacciose di un torrente in piena. Quindi per il concetto stesso che traspare dal termine “fiumana”, nel quale si sente qualcosa di placido e maestoso, di acque che scorrono abbondanti ma non vorticose e defluiscono lentamente senza provocare danni o far correre rischi.
Chi vive in vallata sa che questa particolare condizione si verifica soprattutto con le piogge primaverili, allorché il susseguirsi di giorni piovosi accresce la portata del Lavagna senza dare alle acque l’aspetto torbido che assumono con le piene autunnali. Anzi, nei giorni successivi alle piogge il loro colore è glauco, ceruleo, di un verde cilestrino che rispecchia l’azzurro del cielo e il verde della vegetazione primaverile presente sulle sponde.
E qui sorge spontanea un’altra domanda: può, Dante, durante il suo lungo peregrinare, essere passato in Fontanabuona ed avere visto di persona il Lavagna ritraendone un’impressione così viva che ha poi trasferito nei famosi versi “intra Siestri e Chiaveri s’adima una fiumana bella”?
In proposito non può esserci alcuna certezza, ma è ammissibile ipotizzarlo proprio per i precisi riferimenti geografici di Siestri e Chiavari, ossia i luoghi dove il Lavagna ha le sue sorgenti e dove sfocia in mare. In particolare per la citazione di Siestri, località di ben scarso rilievo, nota solamente a chi ha necessità di passarvi percorrendo l’antica strada di valico, situata effettivamente in capo alla valle, da dove l’acqua del torrente inizia ad “adimarsi”, a scorrere “ad imum”, verso il basso. Basti pensare che i commentatori danteschi hanno sempre ritenuto, fino a pochi anni fa, non conoscendo l’esistenza del Siestri “fontanino”, che si trattasse di Sestri Levante.
In vallata la tradizione del passaggio di Dante appare assai radicata. Ma quale ne potrebbe essere stata l’occasione? Chi si è cimentato a risolvere il quesito non ha potuto che formulare ipotesi.
La presenza di Dante alla corte dei marchesi Malaspina in Lunigiana, documentata nel 1306, e la citazione che fa della “buona Alagia”, la nipote di Adriano V andata sposa nel 1295 a Moroello Malaspina, apre la porta alla possibilità che il Poeta abbia effettivamente compiuto un percorso nelle terre dei Fieschi: a San Salvatore, dove già esistevano il grande e austero palazzo comitale e la maestosa basilica voluta da Innocenzo IV e portata a termine da Adriano V; a Torriglia, il feudo acquistato da Nicolò, padre di Alagia, che qui dettò il suo lungo testamento e dove probabilmente, all’inizio del 1310, cessò di vivere.
Ma non si può escludere un suo passaggio in Fontanabuona per raggiungere le terre che i Malaspina avevano in Val Trebbia e in Valle Staffora, dove, secondo una tradizione tramandatasi nel tempo, i castelli di Pregola, Varzi e Oramala potrebbero averlo ospitato quando nel 1311 si recò a Milano per l’incontro con l’imperatore Arrigo (Enrico) VII; oppure in occasione di un controverso viaggio a Parigi. Ma c’è anche chi ipotizza, contrariamente a quanto sostengono gli studiosi lunigianesi, che Dante, proveniente nel 1306 da Verona, sia giunto in Lunigiana percorrendo da Piacenza la Val Trebbia e quindi la Fontanabuona per potersi imbarcare a Sestri Levante e poi approdare a Lerici. Un tragitto un pò inverosimile, ma tre le varie ipotesi può starci anche questa. In ogni caso il suo passaggio per Siestri viene dato per scontato, anche se è impossibile stabilire una data certa.
Ciò che ormai è sicuro è l’esito della ricerca affrontata dalla fiorentina Paola Manni che con la sua autorevolezza di studiosa affermata e di vice presidente dell’Accademia della Crusca ha stabilito in modo incontrovertibile, con argomentazioni di carattere storico, geografico e filologico, che il “Siestri” dantesco non è Sestri Levante, come i commentatori della “Commedia” hanno da sempre sostenuto ripetendosi pedissequamente l’un l’altro, ma il Siestri dell’alta Fontanabuona, in comune di Neirone, cosa che peraltro la tradizione valligiana ha sempre affermato in maniera convinta.
Anche se si possono avere fondati dubbi su una così lunga persistenza di una memoria attraverso i secoli, non si può escludere che determinati avvenimenti abbiano lasciato una traccia profonda e duratura. Due casi, proprio in Fontanabuona, lo stanno a dimostrare. Uno riguarda la presenza degli avi di Cristoforo Colombo in quel di Moconesi, a Terrarossa, tradizione che trovò conferma allorché venne scoperto il documento del 21 febbraio 1429 nel quale viene citato il nonno del Navigatore, “Johannes de Columbo de Moconexi”; l’altro si riferisce alla Congiura dei Torre, ordita nel 1672 a danno della Repubblica di Genova. Il principale protagonista fu Pasquale Torre, di Calvari, che ci rimise la testa e i beni.
Si racconta che a sua moglie, Pellegrina Malaspina, quando i congiurati già avevano preso la strada per Genova, sia stato rivolto questo particolare saluto, tramandatosi oralmente fino ad oggi: “Pellegrinn-a, Pellegrinn-a, o de Zena ti saiè reginn-a o de Càrvai ti saiè meschinn-a”.
Nel primo caso sono trascorsi cinque secoli, nel secondo più di tre, e si direbbe che la breve filastrocca sia giunta fino a noi inalterata.
A questo punto un fondo di verità potrebbe esserci anche nel racconto che un’anziana donna di Siestri, incontrata il 1° maggio del 1962 in occasione di una escursione da Torriglia a Gattorna, ebbe a fare con sicura convinzione: “Dante alloggiava in questa casa ormai senza tetto e scriveva quèllu papé lungu che u se lezze cumme se canta seduto sotto un grande albero di castagno che è stato tagliato ma di cui ancora si vede la ceppaia. A mangiare andava qui sotto, alle Bugne, dove c’era un’osteria”.
Più di vent’anni dopo, in un incontro casuale con due boscaioli intenti a far legna nei pressi di Siestri, ci fu quella che può essere considerata una conferma della tradizione. “Dante si era fermato un pò di tempo a Siestri nella prima casa del paese, che è sempre stata detta ‘la casa di Dante’, ma veniva a mangiare all’osteria delle Bugne, che era lassù nell’ultima casa, quella con una feritoia e due piccole finestre. Si dice che a Siestri abbia scritto parte della sua poesia”.
Queste citazioni non possono certamente, nonostante la dimostrazione del perdurare della memoria nel tempo, essere considerate una testimonianza cui si possa dare valore di prova, ma il fatto che sul passaggio di Dante la tradizione sia diffusa in tutta la vallata e giunga a coinvolgere anche Chiavari e Lavagna, lascia quanto meno pensare che un fondamento di verità non manchi.
D’altronde, come già detto, la definizione di “bella” attribuita alla “fiumana” e il termine stesso di “fiumana”, riecheggiante lo scorrere tranquillo di acque abbondanti, non escludono, anzi avvalorano, la reale possibilità che Dante abbia visto di persona i luoghi che ha poi reso immortali nel XIX canto del Purgatorio. Ed è singolare la citazione di Siestri, un paesino di cui deve aver conservato una particolare memoria.
Renato Lagomarsino
(Articolo tratto dal N° 41 del 14/12/2023 del settimanale “La Trebbia”)
Siestri e Dante Alighieri nel servizio fotografico
di Marisa Fraguglia
Related Posts