Suor Maria esce di clausura

Che a Fontanigorda abitassero delle suore sfollate era noto in Val Trebbia ai montanari e ai partigiani. Ma che ve ne fossero alcune di clausura lo sapevano soltanto il parroco, il Comando della VI Zona e Pittaluga del governo clandestino ligure (CLN).
Durante il rastrellamento di fine agosto 1944, in uno scontro sul greto della Trebbia, fra Loco e i Due Ponti, Ferruccio s’era comportato bene, aveva disarmato un tedesco e l’aveva consegnato prigioniero alle staffette affinché lo conducessero a Fascia. Ma proprio per questa sua iniziativa si era sbandato. Nascosto dietro un costone, aveva visto le SS finire a pistolettate due partigiani feriti e raccogliere i propri caduti per trasportarli a Montebruno. I compagni risaliti sui monti stavano rintanandosi nelle buche.
La buca di Ferruccio era troppo lontana. Impossibile raggiungerla di giorno. Il panico coglie all’improvviso anche chi si è già sperimentato coraggioso. Ferruccio abbandonò lo sten. Strisciando carponi fra i sassi asciutti della sponda raggiunse il punto dove sboccava nel Trebbia l’ampia convalle di Fontanigorda. La risalì, nascondendosi tra i frassini, i castagni, gli ontani e le betulle. Giunto sotto il poggio dove sorgono le prime case del villaggio, si nascose fra due massi e si addormentò. Si svegliò che era scuro. Si arrampicò sulla carrozzabile, polverosa, dissestata, deserta. Ne percorse un centinaio di metri e andò a bussare alla prima porta che gli si parò dinanzi.
Era la casa di Matte dei Campané: dove stavano le suore. La superiora avrebbe forse preferito il martirio piuttosto che decidere la sorte dell’ospite indesiderato. Metterlo fuori significava consegnarlo ai repubblichini, che da qualche giorno presidiavano il paese. Consegnarlo significava ammazzarlo.
Il domani a Fontanigorda giunsero delle camionette blindate. Pareva la prima linea d’una guerra frontale. Mentre era sì guerra, ma contro un avversario inafferrabile, impalpabile. – Sembra – diceva il maggiore della Wehrmacht, una delle poche facce cristiane in mezzo a parecchi visi degenerati – sembra che soltanto adesso questi italiani sentano la guerra; l’avessero sentita quando la facevano insieme a noi -.
Di partigiani neppure l’ombra. Erano più di mille qualche giorno prima, non potevano essersi volatilizzati. Del resto, i tedeschi ne avevano ucciso due, feriti altri quattro, e un settimo era scomparso, proprio il mattino del giorno innanzi, sul greto del Trebbia, fra Loco e i Due Ponti. E quella notte avevano tentato di far saltare con la dinamite uno dei due ponti dai quali la località prendeva il nome.
C’erano, ma nessuno sapeva dove fossero. E nessuno -tranne due suore – sapeva che uno dormiva tranquillamente nella cucina della casa, all’inizio del paese, poco distante dal torrente.
Le due suore si trovavano ancora, il mattino del 27 agosto, tormentate dagli stessi dubbi della nottata. Ma era domenica. E doveva venire il parroco a celebrare la messa.
Una delle due suore svegliò Ferruccio e lo nascose nel ripostiglio. Un’altra addobbò l’altare, le consorelle pregavano sulle prime sedie. Quando suonò il campanello dell’Introito giunsero le altre con i visi coperti dal velo. Lo scoprirono di sotto in su, fino alla bocca, per la Comunione. Si ritirarono subito, all’Ite.
Fu allora che la superiora condusse il parroco in cucina. Gli offrì un caffè, ma il prete lo rifiutò perché doveva celebrare un’altra messa. Senza l’ausilio del caffè, finalmente la suora si decise a parlare.
Fu sorpresa della serena reazione del parroco. – Lui c’è abituato – pensò – ma noi no. – Siccome l’interlocutore taceva, espresse a voce alta la sua considerazione.
– Già – rispose il parroco – e se rimanete qui, dovrete abituarvi pure voi. Questo giovane, intanto, bisogna salvarlo. Dov’è?
Il parroco fu introdotto nel ripostiglio. Chiuse la porta.
– Ah, sei tu? Che t’è saltato in mente di chiedere ospitalità alle suore?
– E chi lo sapeva? – Ferruccio raccontò la sua vicenda, ma non disse della crisi di panico che l’aveva colto, né di aver abbandonato lo sten.
– Sei armato? – gli domandò il parroco che aveva già compreso.
– No.
– Forse è meglio. Adesso resta qui.
Ferruccio esitava. Pareva che volesse dire qualcosa.
– Che c’è?
– Ho tanta fame, reverendo, posso mangiare?
Non c’era molto nel ripostiglio, ma qualcosa pure c’era: un mezzo sacco di farina di granturco, qualche chilo di pomodori, della lattuga fresca, un grosso fascio d’ortica, un sacchetto di fagioli, due o tre pani e, odoroso, allettante, un salame.
– Bada bene di non toccare nulla, lo dirò alla superiora.
La superiora – forse per attutire il rimorso di aver preso in considerazione l’infame pensiero di liberarsi dell’ospite incomodo – affettò il salame e glielo diede con mezzo pane, più un bel piatto d’ortica lessa, condita con molto sale, buon aceto, e qualche goccia d’olio.
Intanto il parroco aveva elaborato il suo piano.
– Fino a domani sera ve lo tenete – disse alla superiora
– Domani all’imbrunire fingete che qualcuna di voi sia malata e venite a chiamarmi in canonica. Io porterò l’occorrente. Di notte non si può far nulla. Martedì mattina…
È Santa Rosa da Lima. Che Santa Rosa ci aiuti! Vi aiuterà.
Una suora si recò a chiamare il parroco, lunedì sera, poco dopo le sette. Tremava, piangeva, fingeva d’essere sconvolta.
– Sta male, sta male! – disse alla perpetua che le aveva aperto la porta della canonica. Il parroco uscì infagottato, con un pacco fra le braccia.
Nel pacco: un vestito intero, biancheria da uomo, un abbigliamento per donna: niente di speciale, tuttavia un abbigliamento da città: gonna marrone, pullover giallo canarino a mezze maniche.
– Domani mattina – disse il parroco – una di voi uscirà con lui, come se niente fosse. Vi dirigerete verso Casoni. A Casoni i tedeschi non ci stanno più. Comunque, a metà della mulattiera, qualcuno dei nostri farà la posta.
Le suore non erano convinte, ma il prete: – Dovete farlo – troncò asciutto e se ne andò.
L’imbarazzo era grande. Chi sarebbe uscita insieme al partigiano, con una gonna marrone e il pullover giallo canarino a mezze maniche? Tutte sapevano ormai che c’era un uomo in cucina; e che una di loro avrebbe dovuto aiutarlo a fuggire. Ognuna era tentata a prestarsi a un atto di coraggio, che comportava addirittura il rischio della morte, ma nessuna si faceva avanti.
Si fece avanti suor Maria di clausura.
– Se c’è veramente un rischio – disse – vado io, tocca a me. Sono tedesca – Qualche sussurro di sorpresa. – Sì, sono e mi sento tedesca. – Era della Val Pusteria. -I miei genitori hanno optato per la Germania e, se non fossi già entrata nell’ordine, l’avrei scelta anch’io. Se rischio c’è, tocca a me.
La superiora ci ha prosciolto dal voto, per caso di necessità, quando ci condusse qui. Se non morirò, tornerò, e riprenderò il mio velo -.
Questo fu, pressapoco il discorso di suor Maria che fece allibire le consorelle e sconvolse la mente della superiora.
E, la mattina, uscì, con la benedizione del parroco, vestita di tutto punto – gonna marrone, pullover canarino con le mezze maniche -, accompagnata da Ferruccio, in abito borghese.
Al termine della piazza, Ferruccio osò toccarle il braccio. A braccetto – come due giovani sposi sfollati – s’avviarono per la strada di Casoni.
Se quei due abbiano parlato, se si siano detti qualcosa, Pittaluga non sa.
Camminarono per una mezz’ora buona su per la rampa, un groviglio di sassi riarsi, che in qualche punto, diventavano in primavera il letto d’un ruscello. Tale era allora la strada di Casoni.
Prima di giungere a metà via, dove un partigiano li attendeva nascosto, incapparono nella pattuglia tedesca.
La tragedia si scatenò improvvisa.
Avessero o no riconosciuto in Ferruccio un ribelle, certo è che i tedeschi cominciarono a strapazzarlo. Urlavano. Suor Maria, gli occhi sbarrati, capiva.
Fu il caso o la volontà di farla finita presto, fu comunque una fortuna per Ferruccio che un caporale, leggermente distaccato dal gruppo, abbia sparato una raffica. Uno spruzzo di sangue sgorgò dal braccio sinistro, colpito di striscio, e Ferruccio cadde svenuto.
Allora avvenne l’imprevisto, l’imprevedibile. Suor Maria si buttò sul caduto, lo carezzò, lo coprì con il suo corpo e, levando il bel viso bianco, incorniciato da poche ciocche bionde, un viso chiaramente teutonico, gridò in tedesco. E in tedesco recitò la parte della sposa straziata: – Vigliacchi, furfanti, perché mi avete ucciso il marito? Che? Vi stupite? Sì, sono tedesca, sudtirolese. Non avrei dovuto sposarlo? Era serio, laborioso. Luigi, perché ti hanno ucciso?
Luigi, cioè Ferruccio, nonostante le fitte lancinanti del braccio, era rinvenuto, si rendeva conto d’essere vivo, sentiva le carezze di suor Maria sul volto, in cui scorreva ancora tanto sangue giovanile. Più lei lo accarezzava, più lui si svegliava. Finché lo baciò nell’orecchio e gli bisbigliò: – Sei morto, sei morto.
I tedeschi – non c’era fra loro un ufficiale, né un sottufficiale – temettero forse che quella donna della loro stessa razza potesse procurare dei fastidi. S’allontanarono in fretta. Scesero a Fontanigorda dove probabilmente non riferirono nulla. Di cadaveri ce n’erano talmente tanti in giro, in quei giorni.
Comunque il cadavere di Ferruccio non fu trovato da alcuno, perché cadavere non era.
Rientrò in partigianeria, quasi guarito, il sabato 9 settembre.
Che cosa abbia fatto fra il 30 agosto e il 9 settembre, Pittaluga non sa. Sa soltanto che Ferruccio dichiarò a più riprese che suor Maria era una santa; s’era comportata come una sorella santa. A chi azzardò un motteggio per l’avventura sulla mulattiera di Casoni, Ferruccio s’avventò contro, furioso.
Di suor Maria, Pittaluga arrischiò una domanda al vescovo di Bobbio, a guerra finita.
II vescovo si mostrò al corrente di tutto.
– Suor Maria – disse – è rientrata subito in clausura.
– A Genova?
Non saprei. Morta, comunque, morta per il mondo ma viva per la preghiera.
Ferruccio, il partigiano salvato sulla mulattiera di Casoni, l’estate del ’14, la mattina del 30 agosto – Santa Rosa da Lima – combatté con valore durante il rastrellamento d’inverno ed ebbe la gioia d’entrare vittorioso a Genova, all’alba del 26 aprile dell’anno successivo.

(Brano tratto da “Pittaluga racconta – Romanzo di fatti veri 1943-45” di Paolo Emilio Taviani – Edizioni il Mulino)

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