Agudo, principe di Casagrande

Francesco Agudo era di Casagrande — così dalle nostre parti si dice dei trovatelli – e se ne vantava perché il non conoscere né il babbo né la mamma, per lui rappresentava un grande vantaggio: «per esempio, tu conosci tuo padre e così sai bene d’essere figlio d’un operaio, d’un contadino, d’un bottegaio; e tua mamma, che so? una lavandaia, una casalinga: ma sempre figlio di povera gente sai di essere, e tale rimani. Invece io, di mio padre non so nulla, può esser stato un vero signore, magari un principe, e mia madre una donna nobile… Non dirmi che è impossibile, non lo sai come non lo so io, diciamo allora che potrebbe anche darsi… Del resto il mio nome, Agudo, è fuori dell’ordinario, dicono che sia spagnolo. Lo daresti a tuo figlio un nome forestiero? E dunque, vedi? potrei anche essere figlio di un Grande di Spagna… ».
Spesso fantasticava in questo modo per farsi venire il sonno, ma in formazione tutti lo giudicavano un po’ tocco, e con ciò gli volevano bene lo stesso perché era un ragazzo allegro e generoso. L’ospizio dei trovatelli, quand’era ancora in fasce, l’aveva affidato a una famiglia di contadini perché lo allevassero. Era gente povera e l’aveva tirato su a polenta e cipolle: appena fattosi grandicello lo aveva messo a fare il garzone di stalla. Con le mucche s’era abituato a dormire d’inverno, e abituato a dormire all’addiaccio in primavera e d’estate quando era ai pascoli montani. Finché, chiamato a militare, subito aveva disertato e s’era unito a noi, così aveva trovato una famiglia.
Durante le riunioni serali stava tutt’orecchi, non perdeva una parola di quanto si stava discutendo, e cioè di un mondo migliore, di libertà, di uguaglianza: e forse nella sua testa anche le nostre erano fantasie, dolci fantasie che aiutavano a vivere e a sognare, come quella di essere figlio di un Grande di Spagna… Al Comando, dove in seguito venne trasferito, mi seguiva come un ombra: questo era il suo compito, e lo assolveva con quello scrupolo che gli veniva dalla vita che era stato costretto a condurre fino ad allora, e cioè con un’obbedienza talmente rispettosa da parere servile, e invece era fatta di affetto e riconoscenza.
Un giorno ch’ero stato convocato dal Comando di zona per una riunione che si teneva nella colonia di Rovegno dov’erano i prigionieri e l’ospedale, percorrendo una corsia vidi un lettino libero e gli dissi: « Tu mettiti lì e riposa, che dopo la riunione dovremo ripartire… ». E lui: « Io, su questo letto? ». « Naturalmente ».
Ma quando il mattino dopo andai a svegliarlo vidi che s’era sistemato sotto il letto: « Perché ti sei ficcato lì sotto? ». Confessò di non aver mai dormito in un letto, e quando s’era sdraiato gli era parso di sprofondare: « Dovrò pure abituarmici: ma stanotte non ce l’ho fatta, ero troppo stanco… ».
L’indomani scendemmo a Gorreto dove il Comando aveva requisito un palazzo al centro della borgata: è il castello dei principi Centurione ed è stupendo per davvero. C’era un salone enorme con dei quadri alle pareti e dei trofei d’armi antiche: in seguito, quando l’occuparono i fascisti, saccheggiarono ogni cosa e fu un vero peccato.
Invece i partigiani, non appena il parroco gli ebbe consegnato le chiavi, s’erano preoccupati di fare una bella pulizia, perché da tempo era disabitato, e quando arrivammo noi era già tutto in ordine, i pavimenti lustri e i trofei che scintillavano. Agudo dovette credersi in un palazzo incantato, perchè camminava in punta di piedi e con il naso in aria, a rischio di andare a sbattere contro le pareti.
Finì con l’ambientarsi e allora assistemmo ad una straordinaria trasformazione: cominciò col curare eccessivamente la sua persona, e poi con gli stessi suoi compagni assumeva un’aria compiaciuta e solenne, come se il Palazzo fosse casa sua e loro suoi ospiti. « Mi pare per davvero di essere io il principe, e questa la mia casa… » diceva: ma io non gli davo gran che retta perché la situazione di giorno in giorno si faceva più difficile, piena di preoccupazioni: i nostri informatori ci avevano avvertito di un grosso rastrellamento che avrebbe dovuto iniziare verso la fine di luglio e tutto il nostro schieramento era in movimento perché gli alpini della Monterosa provenienti dalla Germania e inquadrati da tedeschi operavano senza soste con azioni di pattuglie per saggiare le nostre forze. Sapevamo anche che stavolta l’obbiettivo del nemico non era soltanto quello di liberare le strade della val Trebbia e dell’Aveto, ma soprattutto di sconvolgere l’ordinamento che stavamo dando a tutta la zona che dalla camionale va fino a Bobbio nel piacentino e in val d’Aveto: la nostra Repubblica dove stavamo procedendo a libere elezioni nelle amministrazioni comunali e organizzavamo scuole, trasporti, razionamento e tutto. Ora purtroppo di tutto ciò che in questa direzione si era realizzato, ci si sta dimenticando e di questa Repubblica e del suo ordinamento manco si fa parola; ma allora aveva preoccupato e molto le autorità fasciste e quelle tedesche, così avevano deciso di intervenire in grandi forze e distruggere in modo definitivo quel pericoloso focolaio di democrazia.
La sera del 29 luglio i tedeschi attaccarono di sorpresa il posto di blocco che era in prossimità di Laccio, a pochi chilometri da Torriglia: al di là del ponte, che avevamo fatto saltare, c’era la terra di nessuno dove operavano sia le nostre pattuglie che le loro. All’indomani per tempo mandammo Agudo al comando della brigata Jori ch’era accantonata a Torriglia, con l’ordine che dalle alture che sovrastano il Laccio ci si limitasse a vigilare, pronti a ritirarsi al primo allarme. Agudo avrebbe dovuto rientrare a Gorreto verso mezzogiorno, e cioè non appena trasmesso l’ordine, ma l’attendemmo invano: seppimo poi che s’era offerto di comandare una pattuglia che doveva esplorare la zona che sovrasta il Laccio e, sopravvenuto un piovasco, s’erano riparati in una casa. Appunto in quella casa vennero sorpresi da un pattuglione tedesco, e i contadini supplicavano di non sparare, perché sarebbero state coinvolte le donne e i bambini, e così fecero: si arresero senza combattere.
Corsi subito a Torriglia per proporre uno scambio a mezzo di quel parroco: avevamo più d’un centinaio di prigionieri tedeschi e, se l’avessero chiesto, l’avremmo liberati tutti quanti; ma il prete non era ancora partito che arrivò un contadino dall’aspetto sconvolto: sul piazzale della Scoffera li avevano fucilati tutti e tre, Agudo e i suoi due compagni, Ramon e Quarto. Non ci rimaneva che ricuperare i cadaveri.
Al Comando c’era la Maria che s’incaricò di lavare le ferite; poi li rivestì con divise nuove e preparò la camera ardente nel grande salone del palazzo.
Sul letto dei principi Centurione, tra i due compagni, Agudo sprofondava un po’ perché era più pesante: a differenza degli altri aveva gli occhi sbarrati perché non c’era stato verso di chiuderli, e tutt’intorno, alle pareti, la luce dei ceri faceva brillare i trofei.

(Brano tratto da “La Repubblica di Torriglia” di Marzo – Di Stefano editore)

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