Fontanigorda

A questo piacevole e grazioso villaggio, alto sul mare 820 metri, e distante un’ora da Loco, giungevo alle 10 del mattino, fatte da Torriglia quattr’ore e mezza non interrotte di strada.
Molti sono i pregi per cui Fontanigorda è preferita a tanti altri paesi alpestri dell’Apennino. Se non uguaglia ancora Torriglia pel numero dei caseggiati civili e grandiosi, le va di tanto innanzi per quella certa quale nettezza, che, contro l’uso generale dei monti, vi regna fin nelle case dei contadini: per la sua posizione aprica, per il panorama, che dal villaggio si gode ha pochi rivali, essendo pur troppo un difetto nel più gran numero de’ paesi di montagna, e specialmente dell’Apennino, l’essere poveri di cielo e di vista, rinserrati fra le gole dei monti. Ricca di acque saluberrime che in tutte le direzioni ne solcano il territorio dolcemente inclinato, tutta circondata da molli prati e da boschi folti ed ombrosi, fa ritornare in mente i soavi versi dell’Alighieri, dove menziona:

“I ruscelletti, che dei verdi colli
Del Casentin discendon giuso in Arno,
Facendo i lor canali e freddi e molli”

Nè v’ha in vicinanza frane o dirupi, che colla loro orrida maestà scemino nella benchè menoma parte la dolcezza del luogo; ma dietro e in lontananza s’adergono maestose e appaiono come inaccessibili le rocce del monte di Roccabruna e del Gifarco, che, lanciandosi arditamente a picco qualche centinaia di metri sull’altezza comune, che ha là la cresta, par davvero inesplorato nido di falchi e d’ogni sorta di uccelli rapaci.
Davanti si scorge la sottostante vallata della Trebbia, che scorre tortuosa fra campi, boschi e prati, in mezzo a cui qua e là biancheggiano poveri villaggi, è più oltre quella lunga e maestosa giogaia, che divide la Trebbia dalla Scrivia e sulla quale emergono le punte dell’Antola, del Carmo di Carrega, dell’Alfeo, del Cavalmurone, del Chiappo, dell’Ebro, e dell’altissimo Lesima (m. 1727) gigante dell’Apennino, intorno alle cui ampie falde decine di villaggi serbano tuttora coi loro nomi, che sanno d’ Africano, le tradizioni del passaggio di Annibale, dei quali luoghi tutti a suo tempo vi ho ragionato a parte.
« Non mancano in Fontanigorda alcune osterie, per montagna, tenute con tutta quella decenza, che più si può desiderare, ed anzi havvi un ottimo albergo condotto dal sindaco, e fornito di molti agi, nel quale è il principale ritrovo dell’elegante colonia di villeggianti, che dalla nostra riviera e dalla Lombardia e dal Piemonte vanno ogni estate a ricrearsi fra quelle alture.
« Non fu lunga la mia dimora in Fontanigorda, ed alle 2 del pomeriggio, quantunque fosse il tempo minaccioso, mi incamminai verso le inospite roccie del Gifarco e del Roccabruna ergentisi sul maggior ciglio della giogaja, che separa la Trebbia dall’Aveto suo affluente. Cammin facendo, frequenti incontravo i carbonai che con quattro, cinque e talvolta otto e dieci muli, l’ uno dietro all’altro, recano a Loco, donde coi carri prosegue fino a Milano ed a Genova, il carbone che a centinaia di tonnellate producono le vaste ed intricate selve montuose dell’Aveto. Appena fui fuori dei boschi, che circondano Fontanigorda, mi trovai fra i gerbidi sparsi di grossi macigni, la cui struttura rivela la loro affinità colle rocce delle miniere di Rovegno.
Il terreno per tutta la superficie di quei gerbidi trasuda acqua in grande copia, sicchè è molle e fangoso; ma il pendio, vietando alle acque di stagnare, esse si raccolgono e scendono in cento limpidi ruscelli. Le pianticelle ed i bianchi fiori che crescono tra quelle umide zolle, rammentano la flora che si trova nelle Alpi, negli spazi, che vengono lasciati scoperti da quei nevai, che, dopo aver resistito ai primi tepori del maggio, spariscono poi ai raggi del sole di luglio.
Non ero ancora andato un’ora da Fontanigorda che le nubi mi ravvolsero d’ogni intorno; cominciò il tuono a rimbombare spaventosamente fra le gole dei monti, e la pioggia a cadere fredda al pari del gelo, Avendo scorto là vicino una capanna di legno e di paglia in cui due persone non avrebbero potuto contenersi, vi entrai curvandomi quanto fu d’uopo, e là rannicchiato attesi che calmasse l’infuriare della procella.
Dopo meno di un’ora ripresi il cammino, avvolto tra fitta nebbia, e seguitando a cadere fredda e minuta la pioggia. L’avere già un’altra volta toccata la cima del Roccabruna mi distolse dal salirvi con un tempo, che nulla mi avrebbe lasciato vedere di lassù, e mi limitai a toccare la cresta della giogaja alquanto sotto ed a sinistra della vetta, nel luogo detto passo d’Esola alto circa 1300 m. sul mare e distante press’a poco un’ora e mezzo da Fontanigorda.
Di là cominciai a scendere tra le folte e intricatissime foreste di minuti faggi, dove spessi, ma tortuosi e corti sentieri, tracciati per la loro industria dai carbonai, mi sviarono del continuo, lasciandomi poi senza traccia di cammino fra l’impiccio delle fitte piante, fra cui, mentre i rami con poco dilettevole musica mi percotevano senza tregua il viso, gli sterpi degli alberi, abbattuti nell’ultimo dei tagli, che ad ogni determinato periodo di anni praticano i carbonai or nell’uno or nell’altro punto della foresta, mi percotevano non meno violentemente e piedi e gambe e mi spingevano spesso a buscarmi più dolorose percosse contro i taglienti rami sparsi colà fra le giovani piante ed i vecchi sterpi.
A questi flagelli si aggiungeva la pioggia e la nebbia; per cui era somma ventura, se, coll’aiuto della carta topografica e della bussola, non mi lasciavo di soverchio sviare dalla mia direzione. Procedevo pertanto non senza un certo sgomento, fomentato in me dalla memoria di quanto mi era succeduto il precedente autunno fra quelle stesse boscaglie, allorquando, tratto in inganno dall’orologio, e notte e nebbia, mi avevano tutto solo sorpreso, rendendomi le tenebre impossibile l’usare la bussola e le carte, in guisachè, solo dopo tre ore di angoscioso affanno e di vano aggirarmi, avevo potuto ritrovare la strada che scende ai villaggi di Esola e Rezoaglio.
Di tratto in tratto, come oasi nel deserto, comparivano tra la foresta piccole praterie, ma attraversatele, era d’uopo rientrare nei triboli, se volevo proseguire il cammino. Finalmente una ne raggiunsi, che, quantunque dietro ed ai lati fosse cinta dalla foresta, era aperta davanti, dove sporgeva su roccie, che impossibile era il discendere.
Ma per buona fortuna là vi erano al pascolo alcune bestie bovine, dal che arguì che non lontani dovessero essere i pastori; li chiamai ad alta voce, ed essi, dopo avermi risposto, vennero a me, e per una serie di tortuosi sentieri della foresta, donde, attraverso deliziose praterie irrigate, giunsi prima al villaggio di Esola e poi, attraversato l’Aveto, a quello di Rezoaglio.

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