Foppiano (Rovegno)

Foto di Lorenzo Zampini

La storia del mulino di Foppiano non può prescindere da quella del paese. I miei interlocutori, Giuseppe Foppiani, detto Giò, Stefano Foppiani, detto Steva, e Franco Poggi, tutti nati a Foppiano, non tralasciano neppure un dettaglio, come se fossero sempre stati a Foppiano, ancor prima di nascere. Attraverso i loro racconti riesco quasi a vedere il passato, dal medioevo ad oggi.
“Il nome Foppiano deriva da un errore”, spiega Giò, “era un cognome diffuso in Val Fontanabuona, ma c’era un signore che veniva sempre a portare il grano in paese così ha preso il suo nome”.
Le origini di Foppiano risalgono al 1000 -1200: il paesino era a ridosso dell’antica cappelletta, ora un rudere sotto il paese nuovo. La zona era a rischio di frana, così gli abitanti, “solo con il piccone e la pala”, precisa Giò, hanno spianato il monte e hanno creato il paese che oggi vediamo. Dal 1200 al 1500 Foppiano è rimasta disabitata poi, tra il 1500 e il 1600 si è ripopolata e chi vi risiedeva viveva di castagne; soltanto successivamente si iniziò a coltivare il grano. “Sapeva che nel ‘700 Foppiano era un magazzino?” mi domanda Giò, la risposta viene da Stefano: “sì, da Chiavari portavano il sale e l’olio, da Piacenza il frumento e poi si scambiavano le merci”.
In origine in paese vivevano 28 famiglie in 28 case, ma il colera le costrinse tutte a rifugiarsi al Pian dei Casùn (Casoni), sotto il monte Dego. Nel 1920 gli abitanti hanno creato la piazza e l’acquedotto, rimodernato poi nel 1980-81; nel 1937 hanno costruito la strada asfaltata.
“E’ stata fatta tutta a mano – precisa Giò, i cui occhi vispi si illuminano ad ogni ricordo- abbiamo fatto tutto da soli. E prosegue: “Tutta la frazione si è messa d’accordo e ha venduto una porzione di bosco per avere i soldi con cui comprare i materiali per costruire il muraglione dove ora parcheggiano le macchine, lungo 25 m e alto 12”. Il paese era così unito, mi raccontano le tre anime di Foppiano, che per ogni lavoro tutti si rimboccavano le maniche per darsi una mano. Ogni lutto era dolore per tutti, ogni festa era gioia per tutti. “Gli abitanti di Pietranera erano invidiosi dell’atmosfera che si respirava a Foppiano- confessa Giò- così ci chiamavano i Parigin, dicevano che il nostro paese era la Parigi della Val Trebbia”. Le feste erano attesissime: quella di San Rocco, la domenica dopo il 16 agosto, Pasqua e il S. Natale erano un momento di condivisione, “ed erano le uniche volte che si mangiava la carne, macellata a Rovegno” , aggiunge Franco. Fino all’800, infatti, come spiega Giò, si mangiava la panna del latte salata e messa nella minestra. E’ sempre Giuseppe a ricordare la festa di San Antonio da Padova, il 13 giugno. “Si uccideva il gallo e si faceva al zuppa al mattino” racconta Steva e subito si sente la voce di Giò: “Che bùnna ch’a lea! (Che buona che era!)”.
Le voci di Franco, Stefano e Giuseppe si intersecano, si sovrappongono perché, si sa, un ricordo tira l’altro. Non oso fermarli perché sento che ciò che possono raccontarmi loro, non potrei diversamente conoscerlo.
Quando chiedo loro del mulino, caratteristico del paese, si spalanca un mondo: ” il mulino era più in alto rispetto dove è ora – mi spiegano Stefano e Franco – era ad acqua e con la ruota in legno, si usava per macinare castagne e farina.
Dal 1915 la ruota è diventata di ferro poi, dal 1950, il mulino è caduto in disuso”. Stefano racconta della seconda guerra mondiale, quando ” i soldati del Fascio hanno piombato il mulino, hanno legato con un filo di piombo le due ruote perché – spiega in dialetto – il mulino non doveva macinare troppo, così hanno fatto in modo che non lo potessimo più usare”. Finita la guerra il mulino ha ripreso a funzionare, ma non c’era un responsabile, tutto il paese lo era in egual misura; dalle parole dei tre foppianesi emerge il senso forte di unità che si respirava in paese e che tuttora si sente se si approda in piazza, specie durante le feste che gli abitanti organizzano per stare insieme. “Era il fulcro del paese, era il centro delle attività e nessun foresto poteva usarlo” dice Giò, “era la nostra fonte di sostentamento, era la parte più importante del paese”.
E’ per questo che nel 1997, gli abitanti di Foppiano, hanno voluto rimettere in funzione il mulino “perché è un simbolo” dice Franco, che insieme a residenti, villeggianti e con l’aiuto competente di Giacomo Muzio, ha lavorato dal ’97 al ’99, per dare nuova vita al mulino.
Ma il mulino non è l’unico simbolo della località: anche la Cappelletta nel prato sotto il paese è una vera testimonianza di antichità; esisteva già prima del 1800, poi, “nel 1927 è stata rinforzata, “quando mio nonno era in America e io avevo 8-10 anni, perché si aveva paura delle frane”, ricorda Giò. La frana è arrivata: la cappelletta è crollata ed è stata ricostruita sulla strada nuova. Purtroppo adesso la vecchia cappelletta è quasi totalmente diroccata.
Non serve che io faccia domande: le parole si susseguono incessanti, i tre amici si scambiano i ricordi e aneddoti. Nel ’44-’45 Foppiano è stata la base del comando americano e dei partigiani che qui si nascondevano: “al tempo qui vivevamo in 10/ 12 famiglie – raccontano Giò e Steva – ed eravamo diventati amici sia con gli uomini della resistenza, sia con gli americani”. Mi raccontano di quando gli alleati si facevano lanciare i viveri ai “pianazzi” dai loro aerei, di quando li portavano in paese coi buoi. “La parola d’ordine – svela Stefano- era “la luna è chiara”: voleva dire che era il momento di lanciare viveri e approvvigionamenti”. Steva è un fiume in piena: “Gli alpini della divisione Monterosa che stavano al Gorreto, venivano sempre a Foppiano fingendo di cercare i partigiani; in realtà – sorride – venivano a trovare le sorelle Razzetti!”. “In paese gli americani avevano stabilito una tipografia – continua Franco- e una domenica hanno fatto portare a mio padre tutti gli strumenti fino a Loco”. Finita la guerra, tutte le macchine tipografiche sono state portate alla Scoffera.
E’ davvero un paese pieno di sorprese, Foppiano: Franco conserva ancora dei quaderni dei conti, dei diari dell’ 800 in cui si possono leggere affascinanti composizioni di Luigia Foppiani, figlia del sindaco Giacomo Foppiani, nato nel 1836 e residente a Foppiano dal 1880 circa.
Franco mi racconta di questa curiosa figura: “era così buono che tutti i paesani andavano vicino alla sua casa perché lui donava farina e pane”. Aveva comprato due proprietà nel piacentino e si era sistemato a Foppiano con un cavallo e una domestica. “Io andavo con mio nonno a vederlo giocare a carte” racconta Steva. Morì nel 1926 a novant’anni.
Oggi i viventi nati a Foppiano sono 25: da qualche anno Franco Poggi provvede a che si celebri per loro una S. Messa cui segue un momento conviviale. “Molti di noi negli anni ’40 sono andati a lavorare a Milano e a Genova, ma Foppiano è sempre rimasta la nostra casa”, dice Giò, che ha vissuto 50 anni a Milano e ora vive a Rapallo. Anche Franco e Steva vivono a Milano, ma: “Guai! – esclamano tutti e tre – appena abbiamo un momento vogliamo subito tornare”.
La luce a Foppiano è arrivata nel 1922, “ma era una luce che andava e veniva”, sogghigna Steva; fu accolta come una novità senza pari: la prima volta che videro una lampadina, alcuni “provarono ad usarla per accendersi la pipa” ricorda Stefano ridendo.
Ora a Foppiano c’è tutto quello che il moderno ha consentito, ma dell’antico è rimasto il profumo del grano mietuto e il rumore delle fonti. Alcuni vecchi foppianesi non ci sono più, ma i nuovi ce la mettono tutta per mantenere quell’ atmosfera che tanto si invidiava ai Parigin. C’è da creder alle parole dei miei tre foppianesi doc: una volta che lo si trova, Foppiano è difficile lasciarlo.

Emanuela Sandali

(Questo articolo è stato tratto dal N° 37 del 10/11/05 del settimanale “La Trebbia”)

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