L’alimentazione in Alta Valtrebbia nella prima metà del Novecento

Le prime fabbriche di pasta a Gorreto e Ottone

Per le zone dell’Alta Val Trebbia, sia genovese che piacentina, si può parlare di alimentazione contadina con una sua specifica identità fino agli anni 50 del Novecento. Ma già nei decenni precedenti i contatti con le città – Genova soprattutto – avevano determinato l’importazione di costumi alimentari diversi da quelli ottocenteschi. E anche localmente l’industria alimentare faceva sentire i suoi effetti: una fabbrica di pasta a Gorreto e una a Ottone erano operative già nei primi decenni del Novecento.Ho ricostruito le abitudini alimentari dei paesi – Fontanarossa, Alpe, Campomolino, Pissino, Bosco, Barchi, Bertassi, Bertone – situati nella Val Terenzone e nella Val Dobera attraversate dagli omonimi affluenti della sponda sinistra del Trebbia: è un campione ridotto ma quanto rilevato si può applicare a tantissime altre località del nostro Appennino dove era praticata l’agricoltura di autoconsumo quella cioè solo in minima parte volta a produrre per la vendita.
Il regime alimentare era subordinato alla quantità di terreno coltivabile, al numero di animali, bovini soprattutto ma anche ovini e caprini, posseduti ed alle persone atte al lavoro presenti in famiglia. Era poi somma cura di tutte le famiglie calcolare la quantità di provviste di base (grano, patate, mais) che dovevano durare fino al successivo raccolto al netto di quanto necessario per la semina. Circa i prodotti da mettere in tavola, se è vero che esisteva una sostanziale uniformità nelle varie località, è anche vero che c’era una certa diversificazione nella qualità dei prodotti in rapporto all’altitudine, al tipo di terreno e all’esposizione solare. Ad esempio Fontanarossa e Barchi producevano patate in grande quantità, il terreno di Alpe e Bertassi era invece più adatto al grano. La cottura dei cibi avveniva in cucine spesso completamente annerite dai fumi che esalavano anticamente dal focolare (fugherà) posto al centro del vano e costituito da un blocco di mattoni tenuti assieme da una fascia quadrata di ferro; alle travi del soffitto erano appese catene munite di ganci ai quali si attaccavano i pentoloni di rame o di ghisa (paiö, lavezze, ghisùn), il fumo si disperdeva tramite il soffitto fatto a graticcio (grè). In certe cucine era presente un caminetto a muro: nella parte bassa del tiraggio era inserito un ferro che reggeva catene con ganci per i pentoloni e alla base c’era lo spazio per il fuoco e i relativi alari (brandanà), in alto sagomati in modo da contenere coppe per il vino o il brodo. Successivamente vennero introdotte le stufe in ghisa, a due o quattro coperchi, munite di canna fumaria e relativo camino; tolti i coperchi si inserivano nella stufa accesa le pentole (pignatte) con l’acqua per procedere alla cottura dei vari cibi. Talvolta la cottura, ad esempio per uova o patate, poteva essere fatta direttamente nella brace del focolare o della stufa. In ogni cucina c’era inoltre il forno con la calotta ed il piano in mattoni, la bocca ad arco era chiusa da una porticina in ferro con maniglia. Il forno era riservato alla cottura del pane, sia di grano che di castagna, del castagnaccio e delle torte.
Alla base dell’alimentazione c’era il grano la cui farina veniva soprattutto utilizzata per fare il pane; a seconda del tipo di setaccio usato si poteva fare un pane più ricco di crusca (pan neigru) oppure più bianco, quello più gradito. Si metteva l’impasto a lievitare e poi si suddivideva in pagnotte (micche) in numero proporzionato a quello dei componenti la famiglia, l’infornata doveva comunque durare una settimana. Il forno era riscaldato con legna di cerro, carpine e faggio considerata di alto potere calorico. In sostituzione del pane alcune famiglie usavano un impasto di farina (figazza) fatto cuocere direttamente nella brace del focolare. Sempre con farina di grano veniva fatta la pasta fresca soprattutto tagliatelle (tagliarin), lasagne e, per le grandi occasioni, ravioli. La pasta era tagliata a mano con uno strumento ricavato da falci da fieno usurate. Le tagliatelle erano talvolta cotte con patate e condite col pesto fatto pestando nel mortaio di marmo (murtâ) il basilico (baxericò) assieme a formaggio grattugiato, aglio e sale.
La farina tostata (farinn-a brestulia) veniva usata per lo svezzamento dei neonati. Si faceva anche un certo uso di riso,sia per risotti che per minestre, dato che una parte del compenso per coloro che si recavano nel vercellese per lavorare nelle risaie era costituito proprio da riso.

Fondamentali tra i cibi le castagne e il mais – Il pollaio e l’allevamento del maiale

Analizzando le abitudini più antiche si osserva che grandissima importanza avevano le castagne, ce n’erano di diversi tipi ognuno riservato a specifici usi: c’erano quelle più adatte ad essere bollite ottenendo le ballotte (balletti), quelle ad essere cotte in apposite padelle bucate o sulla stufa ottenendo le caldarroste (rustie), quelle ad essere bollite assieme ad un rametto di finocchio, dopo essere state pelate (perê).
Per gran parte le castagne erano fatte seccare ponendole sopra un graticcio, talvolta lo stesso soffitto delle cucine, sotto il quale si faceva fuoco; venivano poi sbucciate e macinate, la farina era utilizzata per fare polenta, gnocchi e castagnaccio denominato sia patunna che castagnazzu e consistente in un impasto di farina di castagna, una piccola quantità di farina di grano, latte e sale, il tutto steso in una grande teglia e infornato. Si usava mescolare farina di castagna e di grano anche per fare piccole pagnotte poi cotte nel forno.
Grande importanza alimentare aveva il mais (mierga), le pannocchie essiccate e sgranate fornivano i chicchi da macinare. La farina veniva setacciata e lo scarto era usato per l’alimentazione animale. La polenta cotta in appositi paioli di rame veniva consumata con l’accompagnamento di formaggio, uova o latte.
Esisteva anche una variante di polenta fatta mescolando farina di mais con patate. Queste ultime, dopo l’introduzione nei primi anni dell’Ottocento, sono state utilizzate in vari modi: bollite, fritte, per fare gnocchi e anche una sorta di purè denominato patate fracche costituito da patate prima cotte e passate e poi condite con un saporito battuto di prezzemolo e lardo.
Altra componente di base dell’alimentazione era il latte ed i suoi derivati. In gran parte era latte di mucca ma c’era anche quello ovino e caprino. Con apposita lavorazione e stagionatura venivano confezionati formaggi più morbidi (mulann-e) o formaggi duri atti ad essere grattugiati, esisteva anche il formaggio con i vermi (satarieli) denominato frumaggiu sciaccu, era molto saporito e si accompagnava bene al vino.
Qualcuno mangiava a colazione una tazza di cagliata (quaggià) prima che venisse utilizzata per fare formaggio e beveva il siero (siun) in cui era immersa considerato un depurativo per l’organismo.
Dal latte si ricavava anche il burro (bitiru) prezioso per condire dato che si cercava di usare il meno possibile l’olio di oliva considerato troppo costoso.
Ogni famiglia aveva il suo pollaio che offriva uova fresche e anche qualche pollo che veniva sacrificato nelle grandi occasioni. Rarissimi i casi in cui nel pollaio oltre a galli e galline ci fosse la presenza di un tacchino (pullun).
Quasi tutte le famiglie allevavano un maiale alimentandolo a patate e castagne, la sua macellazione e lavorazione era una festa per gran parte del paese perché a parenti e amici venivano distribuite le parti deperibili (fegato, cuore, rognoni) e porzioni di carne. Una persona specializzata provvedeva a fare salsicce, sanguinacci (beruodi), salami, coppe, pancette e lardo usato poi nelle minestre o mangiato col pane. Si prendeva poi la vescica del maiale la si gonfiava con una paglia e vi si colava il grasso fuso, in tal modo si otteneva e conservava lo strutto ottimo per le fritture.
Una parte dell’alimenta-zione era legata alla stagionalità: quella a base di verdura, frutta e cacciagione.
In primavera si raccoglievano nei prati le foglie di tarassaco (dente de can) per farne insalate e i germogli di ortiche e di vitalba (viazzu) per farne frittate. Dall’orto si ricavano cipolle, aglio, carote, bietole, prezzemolo (pursemmeru), rosmarino (rumanin), piselli (puexi), ceci (ceixeri), cavoli e soprattutto fagiolane. Il basilico era coltivato in tinozze tenute vicino a casa.

Frutti di bosco, funghi, cacciagione e il caffè fatto con orzo o segale

La frutta era costituita da pere (pei) nelle varietà pei de San Giuvanni, pei bitiri, pei vignuö, pei grossci, pei brizzi, pei martin (gli ultimi due tipi si conservavano per l’inverno e venivano cotti nel vino); mele nella varietà renette, carle, rugginose e vari tipi di mela selvatica di piccolo formato; susine (suzzenn-e), prugne (brignùn); ciliegie (zeriexe) di vari tipi tra i quali le piccole teneriele e le più grosse e pregiate “durone” (granfiùn); nei vigneti vi erano alberi di pesco di diverse qualità, tra di essi quelli che producevano le dolci e profumate “settembrine”. A Bertassi, probabilmente importati da chi durante l’inverno lavorava nel Pavese e in Toscana, vi era un albero di gelso bianco (murùn) e uno di gelso nero (sersega) che producevano frutti molto dolci. Limitato al Natale era l’uso di arance (zitrùn).
C’erano poi i frutti di bosco: i mirtilli (püöle) particolarmente abbondanti nel grande castagneto di Fontanarossa, i lamponi (ampüöne) che crescevano copiosi nelle faggete in cui gli alberi erano stati abbattuti, le fragole (merieli), le more (muie), le bacche di corniolo (curnâ) , le nocciole (nizzuore), le noci (nuxe). Durante la Seconda guerra mondiale da noci e nocciole si cercò anche di ricavare olio sebbene di scarsa qualità.
L’ambiente naturale offriva poi i funghi, c’erano quelli tipici dei prati e dei pascoli: prataioli (muffelùn), maggenghi (spinaiuö), cimballi (spinaiuö da-a prinn-a) e i funghi tipici del bosco: porcini (funzi neigri, funzi da-a castaggna), galletti, colombine (crumbinn-e), ovuli (burei) ed i ricercatissimi polipori frondosi (barbixin). I funghi da bosco si trovavano nei castagneti di Fontanarossa, Alpe e Barchi, nelle cerrete di Alpe e Bertassi e nelle faggete dei monti Zucchello e Alfeo. I porcini venivano fatti seccare e spesso inviati ai parenti in America.
A Bosco, piccolo nucleo sotto Fontanarossa, si usava pescare nel vicino torrente Terenzone utilizzando una forma rudimentale di nassa denominata arcabbiu.
Poco diffusa era l’abitudine di cercare lumache (limazze) per mangiarle, si preferiva infatti venderle soprattutto nel Bobbiese. In alcune famiglie la dieta era arricchita dalla cacciagione sia catturata con trappole (lazzi) che abbattuta coi fucili: scoiattoli (sciurne), ghiri (gî), lepri (lievere), pernici, starne, tassi, ricci (puorcuspin), merli neri. In ottobre c’era il passaggio dei tordi (turderi) che si fermavano a mangiare le bacche di ginepro: le trappole venivano tese sotto i cespugli. La caccia era un’attività abbastanza praticata e talvolta anche i parroci erano cacciatori.
Il punto dolente dell’alimentazione contadina era il consumo di carne: a parte quella di qualche pollo e quella proveniente dalla caccia la carne doveva essere acquistata e pertanto solo raramente appariva sulle tavole, e questo in occasione delle feste patronali e delle più importanti solennità religiose. Con carne bovina macinata e mescolata a borraggine (buraxa), cipolla, uova e formaggio si faceva il ripieno (pin) dei ravioli, sempre con carne macinata il sugo (tuccu de carne) e con carne tagliata a pezzi e unita a fagiolane la fricassea (fracassâ) e unita a patate lo stufato (stifò).
Per quanto riguarda i dolci nelle solennità si faceva la figazza duze fatta con farina di grano, uova, zucchero e lievito, u leite duze con latte, farina e zucchero e un budino (bunettu) costituito da un impasto di latte, uova e zucchero versato in una forma di rame stagnato e cotto nella brace. Per San Giuseppe non mancavano ai bambini le frittelle.
Non c’era l’abitudine di fare marmellate e, tranne i rarissimi casi in cui si allevavano le api, il miele che si mangiava era quello spremuto da favi trovati casualmente appesi a qualche albero di castagno.
Nei paesi (Bertassi, Borgo, Pissino) nel cui territorio cresceva la vite veniva fatti due tipi di vino: uno di scarsa gradazione destinato all’uso quotidiano e uno migliore riservato alle grandi occasioni. Il tutto conservato in botti di varie dimensioni (vascieli, vascellin, caratieli). Un po’ di uva veniva consumata fresca col pane o portata con cavagne ai parenti di paesi dove l’uva non era coltivata. Si produceva anche aceto (axeiu). All’interno di alcune località c’erano pergolati (töppie) di uva americana, i suoi grappoli maturi venivano mangiati solitamente dai bambini e solo molto raramente erano usati per la vinificazione.
Circa le bevande, oltre all’acqua di fonte ed al vino c’era il “caffè”: si prendevano chicchi di segale o di orzo, si tostavano, si macinavano e si facevano bollire in un pentolino; si assumeva poi il liquido con un po’ di zucchero (poco perché bisognava comprarlo); il caffè vero e proprio era riservato a coloro che avevano parenti emigrati in America e gliene inviavano confezioni assieme a quelle di cacao.
Si può concludere questo discorso affermando che se gli abitanti dei vari paesi riuscivano in genere a nutrirsi a sufficienza l’avere cibo vario, gustoso ed abbondante rimaneva un obiettivo spesso insoddisfatto e la possibilità di mangiâ e beiea sazietà, consumando raiö (ravioli), pullastri (polli) e pullastrin (galletti), rosti(arrosti), cappun (capponi) e vin bun (ottimo vino) rimandava ad una sorta di paese di Bengodi più favoleggiato che frequentato.

Giovanni Salvi

(Articolo tratto dai  N° 11 del 02/04/2020, 12 del 09/04/2020, 13 del 23/04/2020 del settimanale “La Trebbia”)

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