Il cacciatore di memorie nei borghi abbandonati

La Liguria è la regione più boscosa d’Italia. Non l’Abruzzo, nemmeno il Trentino o la Valle d’Aosta. La Liguria, col 75-78% della superficie occupato da selve. Dicono che il nuovo decreto legislativo in materia di foreste e filiere forestali (il testo unico è alla firma del presidente Mattarella) rilancerà l’economia del bosco, garantendo il rispetto d’ambiente e paesaggio. Qualcuno è preoccupato, denuncia invece il pericolo di uno sfruttamento del territorio.
Altri ancora sostengono che in fondo non cambierà molto, perché la materia continuerà ad essere prima di tutto gestita a livello regionale. Ma è un fatto: presto sarà più facile fare legna e recuperare macchie di verde che col tempo si sono inselvatichite, diventando inaccessibili. Solo 60 anni fa, migliaia e migliaia di liguri sopravvivevano in queste zone, che furono abbandonate quasi di colpo perché arrivarono strade migliori e la gente riuscì a scappare da quella che considerava una schiavitù, consegnandosi alla città. Sono rimaste centinaia di minuscole frazioni, case sparse, mulini: ruderi coperti di polvere, ragnatele, divorati dalle erbacce e dal tempo. Paesi fantasma che è ormai difficile scorgere, nella boscaglia. Però sono ancora lì, nascosti e a loro modo vivi: testimonianza di un tempo recente eppure lontanissimo che meriterebbe di essere conosciuto, ricordato.

Un geometra genovese di mezza età, appassionato di lunghe camminate all’aria aperta e di fotografia, da quando era ragazzo sale in collina. Affronta grovigli di liane e di rovi, come un esploratore amazzonico si fa strada a colpi di roncola. E con un cavalletto, due macchine, qualche obiettivo, riscopre questi luoghi magici perché non ne vada perduta la memoria: scosta porte cigolanti, sale scale in pietra, s’avventura sotto tetti pericolanti, trova piccoli, emozionanti dettagli – un paio di scarpe sfondate, lo scheletro di un letto, piatti sbeccati e cocci di bottiglia, una scritta a carbone sulla pietra, quel che resta di una macina o di una botte – che raccontano storie infinite. Scatta immagini, prende nota. E questa è la sua storia.«Il momento migliore è adesso. In inverno. Non ci sono foglie sugli alberi, tutto si intravede meglio». Per Paolo De Lorenzi è come una missione.
Non solo riscoprire questi luoghi. Conservarli, proteggerli. «Di questi tempi, che la gente vive solo attraverso gli smartphone. Scattano immagini, però a volte temo non catturino davvero il momento: poi magari le foto si perdono nel cambio del telefonino o cancellandole per alleggerire la memoria del dispositivo. Invece questo mondo va documentato, archiviato. Con pazienza, passione. Perché è un patrimonio da non perdere». Un sito, una pagina Facebook con oltre cinquemila appassionati. Qualche anno fa un libro, “Villaggi fantasma”.
Il Collo è un piccolo borgo rurale del Comune di Favale di Malvaro, ci si arriva a piedi dopo aver percorso una strada sterrata dalla comunale verso la frazione di Alvari (prima Bargagli, poi Cicagna). Case a due piani, la stalla sotto e sopra le camere, a volte una soffitta dove essicavano le castagne. In val Fontanabuona c’è Costa di Soglio, tetti coperti da lastre di ardesia. In val Bisagno si può raggiungere Trapena Alta, passando per truogoli e sentieri paralleli ad antichi muretti a secco, tutto intorno castagni secolari. Quella di Barego, poco lontano, pare una favola: lungo il crocevia della strada del sale (tra Genova e Piacenza), gli abitanti se ne andarono più di trecento anni fa, ci sono abitazioni con fondamenta del VII secolo: niente camini all’interno, finestre piccole, probabilmente servivano per custodire le castagne e accogliere gli animali, infatti resistono delle antiche mangiatoie in pietra. Riola, frazione di Torriglia: ci si arriva lungo la mulattiera che collega Donetta a Pentema.
Sessant’anni fa, sembrano secoli. Qui si viveva di castagne, dei prodotti dell’orto, di una mucca, di qualche capra e del loro latte, del grano coltivato sulle fasce strette. Il bosco, certo: con la legna, i sentieri puliti come il letto dei torrenti e dei rii. C’erano piccole comunità che vivevano in maniera autonoma, del baratto dei prodotti con la loro chiesetta ed un cimitero.

De Lorenzi giura che non ha preferenze, però forse mente: «Ci sono alcuni posti – magari solo un paio di case, all’inizio credevo fossero senza nome –: sono stati riconosciuti sul web da persone che mi hanno scritto dal Brasile o dall’Argentina, dove erano emigrate da piccole. Si commuovevano, nel condividere con me le loro memorie. E c’è un mulino all’Alpe di Vobbia, ricostruito nel dopoguerra da emigranti di ritorno però poi di nuovo abbandonato». I mulini sono tanti, molti hanno ancora gli ingranaggi in legno intatti. Sui muri di uno della val Borbera ci puoi scorgere gli antichi conti fatti con un carboncino. Quello di Fulle, a Sori, viene ancora utilizzato per la farina di un pastificio della zona: due macine di sopra, il frantoio di sotto. «A Canate di Marsiglia vivevano trecento persone: c’era una scuola, la maestra arrivava a dorso di mulo. Chi lavorava al porto di Genova tutti i giorni all’alba prendeva il Sentiero dei Mille Gradini per raggiungere a piedi Struppa, poi una corriera fino in città».
Chissà se avverte delle presenze, il geometra, quando si aggira per i paesi fantasma. «A volte penso: ecco, apro quella porta e magari chissà. Ma è solo un brivido, poi prevale l’emozione della storia. ». Magari con la nuova legge sui boschi cambierà qualcosa. «Non lo so. Ma sono convinto che un giorno la gente capirà che questi posti non dovevano essere abbandonati. E tornerà ad abitarli».

http://genova.repubblica.it (25/02/2018)

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